Dubia: la risposta del Papa che non ha soddisfatto i cardinali
Vatican News ha pubblicato la risposta inviata da Papa Francesco alla prima formulazione dei “Dubia” presentata dai cardinali Burke, Brandmüller, Zen, Sandoval e Sarah.
Foto: Vatican Media
Redazione (03/10/2023 16:11, Gaudium Press) Vatican News ha pubblicato la risposta di Papa Francesco dell’11 luglio alla prima formulazione dei dubia (dubbi) presentati dai cardinali Burke, Brandmüller, Zen, Sandoval e Sarah, in occasione del Sinodo della Sinodalità. Tale risposta non ha soddisfatto i cardinali, spingendoli a riformulare il 21 agosto gli stessi dubia, che circolano ora in tutto il mondo su richiesta dei cardinali e ai quali il Pontefice non ha risposto.
Queste le risposte del Papa alla prima formulazione dei dubia dei cardinali:
“Cari fratelli, anche se non sempre mi sembra prudente rispondere alle domande che mi vengono rivolte direttamente, e sarebbe impossibile rispondere a tutte, in questo caso mi è sembrato opportuno farlo per la vicinanza del Sinodo”.
I. Dubium sull’affermazione che la Rivelazione divina deve essere reinterpretata alla luce dei cambiamenti culturali e antropologici in corso.
In seguito alle dichiarazioni di alcuni vescovi, che non sono state corrette o ritrattate, ci si chiede se la Divina Rivelazione nella Chiesa debba essere reinterpretata secondo i cambiamenti culturali del nostro tempo e secondo la nuova visione antropologica che questi cambiamenti promuovono; oppure se la Divina Rivelazione sia vincolante per tutti i tempi, immutabile e quindi non possa essere contraddetta, secondo il dettame del Concilio Vaticano II, per cui a Dio che rivela è dovuta “l’obbedienza della fede” (Dei Verbum 5); che ciò che è stato rivelato per la salvezza di tutti deve rimanere “per sempre intero” e vivo, ed essere “trasmesso a tutte le generazioni” (7) e che il progresso della comprensione non implica alcun cambiamento nella verità delle cose e delle parole, perché la fede è stata “trasmessa una volta per tutte” (8), e il Magistero non è superiore alla Parola di Dio, ma insegna solo ciò che è stato trasmesso (10).
La risposta di Papa Francesco:
(a) La risposta dipende dal significato che si dà alla parola “reinterpretare”. Se è intesa come “interpretare meglio” l’espressione è valida. In questo senso il Concilio Vaticano II ha affermato che è necessario che con il lavoro degli esegeti – aggiungerei dei teologi – “maturi il giudizio della Chiesa” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, 12).
b) Pertanto, se è vero che la Rivelazione divina è immutabile e sempre vincolante, la Chiesa deve essere umile e riconoscere che non esaurisce mai la sua insondabile ricchezza e deve crescere nella sua comprensione.
c) Di conseguenza, matura anche nella comprensione di ciò che essa stessa ha affermato nel suo Magistero.
d) I cambiamenti culturali e le nuove sfide della storia non modificano la Rivelazione, ma possono stimolarci a rendere più espliciti alcuni aspetti della sua straripante ricchezza, che offre sempre di più.
e) È inevitabile che questo possa portare a una migliore espressione di alcune affermazioni passate del Magistero, come del resto è avvenuto nel corso della storia.
f) D’altra parte, è vero che il Magistero non è superiore alla Parola di Dio, ma è anche vero che sia i testi della Scrittura che le testimonianze della Tradizione necessitano di un’interpretazione che permetta di distinguere la loro sostanza perenne dai condizionamenti culturali. Ciò è evidente, ad esempio, nei testi biblici (come Es 21,20-21) e in alcuni interventi magisteriali che tolleravano la schiavitù (cfr. Niccolò V, Bolla Dum Diversas, 1452). Non si tratta di una questione secondaria, data la sua intima connessione con la verità perenne della dignità inalienabile della persona umana. Questi testi hanno bisogno di essere interpretati. Lo stesso vale per alcune considerazioni neotestamentarie sulla donna (1 Cor 11,3-10; 1 Tim 2,11-14) e per altri testi della Scrittura e testimonianze della Tradizione che oggi non possono essere materialmente ripetute.
g) È importante sottolineare che ciò che non può cambiare è ciò che è stato rivelato “per la salvezza di tutti” (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, 7). La Chiesa deve quindi discernere costantemente tra ciò che è essenziale per la salvezza e ciò che è secondario o meno direttamente collegato a questo obiettivo. A questo proposito, vorrei ricordare quanto affermato da San Tommaso d’Aquino: “quanto più si scende al particolare, tanto più aumenta l’indeterminatezza” (Summa Theologiae 1-1 1, q. 94, art. 4).
h) Infine, una singola formulazione di una verità non può mai essere adeguatamente compresa se presentata isolatamente, isolata dal contesto ricco e armonioso dell’intera Rivelazione. La “gerarchia delle verità” implica anche la collocazione di ogni verità in un’adeguata connessione con le verità più centrali e con la totalità dell’insegnamento della Chiesa. Questo può portare, in ultima analisi, a diversi modi di esporre la stessa dottrina, anche se “a coloro che sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, questo può sembrare una dispersione imperfetta. Ma la realtà è che questa varietà aiuta i vari aspetti dell’inesauribile ricchezza del Vangelo a manifestarsi e svilupparsi meglio” (Evangelii Gaudium, 49). Ogni linea teologica ha i suoi rischi, ma anche le sue opportunità.
II. Dubium sull’affermazione che la pratica diffusa di benedire le unioni omosessuali sia in accordo con la Rivelazione e il Magistero (CCC 2357).
Secondo la Rivelazione Divina, attestata nella Sacra Scrittura, che la Chiesa “per comando divino e con l’assistenza dello Spirito Santo ascolta piamente, custodisce santamente ed espone fedelmente” (Dei Verbum 10): “In principio” Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza, maschio e femmina li creò e li benedisse perché fossero fecondi (cfr. Gen 1,27-28), così l’Apostolo Paolo insegna che negare la differenza sessuale è una conseguenza del rinnegare il Creatore (Rm 1,24-32). La domanda sorge spontanea: può la Chiesa derogare a questo “principio”, considerandolo, contrariamente a quanto insegna Veritatis splendor 103, come un mero ideale, e accettando come “bene possibile” situazioni oggettivamente peccaminose, come le unioni omosessuali, senza venir meno alla dottrina rivelata?
La risposta di Papa Francesco:
(a) La Chiesa ha una concezione molto chiara del matrimonio: un’unione esclusiva, stabile e indissolubile tra un uomo e una donna, naturalmente aperta alla generazione di figli. Solo questa unione si chiama “matrimonio”. Altre forme di unione lo sono solo “parzialmente e analogicamente” (Amoris laetitia 292), e quindi non possono essere rigorosamente chiamate “matrimonio”.
b) Non è solo una questione di nomi, ma la realtà che chiamiamo matrimonio ha una costituzione essenziale unica che richiede un nome esclusivo, non applicabile ad altre realtà. È certamente molto di più di un semplice “ideale”.
c) Per questo motivo la Chiesa evita qualsiasi tipo di rito o sacramento che possa contraddire questa convinzione e dare l’impressione che qualcosa che non è matrimonio venga riconosciuto come matrimonio.
d) Nei rapporti con le persone, tuttavia, non dobbiamo perdere la carità pastorale che deve permeare tutte le nostre decisioni e i nostri atteggiamenti. La difesa della verità oggettiva non è l’unica espressione di questa carità, che è fatta anche di gentilezza, pazienza, comprensione, tenerezza e incoraggiamento. Di conseguenza, non possiamo diventare giudici che si limitano a negare, respingere, escludere.
e) La prudenza pastorale deve quindi discernere adeguatamente se esistono forme di benedizione, richieste da una o più persone, che non trasmettano una concezione errata del matrimonio. Infatti, quando si chiede una benedizione, si esprime una richiesta di aiuto a Dio, una supplica per un modo di vivere migliore, una fiducia in un Padre che può aiutarci a vivere meglio.
f) D’altra parte, anche se ci sono situazioni che da un punto di vista oggettivo non sono moralmente accettabili, la stessa carità pastorale esige che le persone non si trattino semplicemente come “peccatori” la cui colpa o responsabilità può essere attenuata da vari fattori che influenzano l’imputabilità soggettiva (cfr. San Giovanni Paolo II, Reconciliatio et Paenitentia, 17).
g) Le decisioni che, in determinate circostanze, possono rientrare nella prudenza pastorale, non devono necessariamente diventare una norma. In altre parole, non è opportuno che una Diocesi, una Conferenza Episcopale o qualsiasi altra struttura ecclesiale autorizzi costantemente e ufficialmente procedure o riti per ogni tipo di questione, poiché tutto ciò che “fa parte di un discernimento pratico in una situazione particolare non può essere elevato alla categoria di norma”, perché questo “darebbe luogo a una casistica insopportabile” (Amoris laetitia 304). Il diritto canonico non deve e non può coprire tutto, né le Conferenze episcopali possono pretendere di farlo con i loro vari documenti e protocolli, perché la vita della Chiesa si svolge attraverso molti canali diversi da quelli normativi.
III. Dubium sull’affermazione che la sinodalità è una “dimensione costitutiva della Chiesa” (Episcopalis Communio 6), per cui la Chiesa sarebbe sinodale per natura.
Poiché il Sinodo dei Vescovi non rappresenta il Collegio episcopale, ma è solo un organo consultivo del Papa, e poiché i vescovi, in quanto testimoni della fede, non possono delegare la loro confessione della verità, si pone la questione se la Sinodalità possa essere il supremo criterio normativo per il governo permanente della Chiesa senza intaccare la sua disposizione costitutiva, come voluto dal suo Fondatore, secondo il quale la suprema e piena autorità della Chiesa è esercitata sia dal Papa in virtù del suo ufficio, sia dal collegio episcopale insieme al suo capo, il Romano Pontefice (Lumen Gentium 22).
La risposta di Papa Francesco:
a) Pur riconoscendo che la suprema e piena autorità della Chiesa è esercitata sia dal Papa in forza del suo ufficio, sia dal collegio episcopale con a capo il Romano Pontefice (cfr. Conc. Ecum. Vati ll, Cost. dogm. Lumen gentium, 22), tuttavia con questi dubia voi stessi manifestate la vostra necessità di partecipare, di esprimere liberamente il vostro parere e di collaborare, e quindi rivendicate una qualche forma di “sinodalità” nell’esercizio del mio ministero.
b) La Chiesa è un “mistero di comunione missionaria”, ma questa comunione non è solo affettiva o eterea, ma implica necessariamente una partecipazione reale: che non solo la gerarchia, ma tutto il popolo di Dio, in modi e a livelli diversi, possa far sentire la propria voce e sentirsi parte del cammino della Chiesa. In questo senso possiamo dire che la sinodalità, come stile e dinamismo, è una dimensione essenziale della vita della Chiesa. San Giovanni Paolo II ha detto cose molto belle su questo punto nella Novo Millennio Ineunte.
c) Altra cosa è sacralizzare o imporre una certa metodologia sinodale che piace a un gruppo, per farne la norma e il canale obbligato per tutti, perché questo porterebbe solo a “congelare” il cammino sinodale, ignorando le diverse caratteristiche delle varie Chiese particolari e la variegata ricchezza della Chiesa universale.
IV.Dubium sul sostegno di pastori e teologi alla teoria secondo cui “la teologia della Chiesa è cambiata” e quindi l’ordinazione sacerdotale può essere conferita alle donne.
In seguito alle dichiarazioni di alcuni prelati, che non sono state corrette o ritrattate, secondo cui il Vaticano II avrebbe cambiato la teologia della Chiesa e il significato della Messa, ci si chiede se sia ancora valido il dettame del Concilio Vaticano II secondo cui “il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale differiscono essenzialmente e non solo di grado” (Lumen Gentium 10) e che i sacerdoti “in virtù della “sacra potestà del sacerdozio””, in virtù della “sacra potestà dell’ordine di offrire sacrifici e di rimettere i peccati” (Presbyterorum Ordinis 2), agiscono in nome e nella persona di Cristo Mediatore, attraverso il quale si perfeziona il sacrificio spirituale dei fedeli? Ci si chiede anche se l’insegnamento della lettera apostolica Ordinatio Sacerdotalis di San Giovanni Paolo II, che insegna, come verità da ritenere definitiva, l’impossibilità di conferire l’ordinazione sacerdotale alle donne, rimanga valido, così che questo insegnamento non sia più soggetto a cambiamenti o alla libera discussione di pastori o teologi.
La risposta di Papa Francesco:
a) “Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale differiscono essenzialmente” (Conc. Ecum. Vat. ll, Cost. dogm. Lumen gentium, 10). Non è opportuno mantenere una differenza di grado che implica considerare il sacerdozio comune dei fedeli come qualcosa di “seconda categoria” o di minor valore (“un grado inferiore”). Entrambe le forme di sacerdozio si illuminano e si sostengono a vicenda.
b) Quando San Giovanni Paolo II ha insegnato che l’impossibilità di conferire l’ordinazione sacerdotale alle donne deve essere affermata “definitivamente”, non stava in alcun modo denigrando le donne e dando il potere supremo agli uomini. San Giovanni Paolo II ha affermato anche altre cose. Ad esempio, che quando si parla di potere sacerdotale “siamo nell’ambito della funzione, non della dignità o della santità” (San Giovanni Paolo II, Christifideles laici, 51), parole che non abbiamo sufficientemente recepito. Ha anche sostenuto chiaramente che, mentre il sacerdote presiede da solo l’Eucaristia, i compiti “non danno luogo alla superiorità dell’uno sull’altro” (San Giovanni Paolo II, Christifideles laici, nota 190; cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Inter Insigniores, VI). Ha anche affermato che se la funzione sacerdotale è “gerarchica”, non deve essere intesa come una forma di dominio, ma “è totalmente ordinata alla santità delle membra di Cristo” (San Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem, 27). Se non si comprende questo e non si traggono le conseguenze pratiche di queste distinzioni, sarà difficile accettare che il sacerdozio sia riservato solo agli uomini e non si potranno riconoscere i diritti delle donne o la necessità che esse partecipino in vari modi alla guida della Chiesa.
c) D’altra parte, per essere rigorosi, riconosciamo che una dottrina chiara e autorevole sull’esatta natura di una “dichiarazione definitiva” non è ancora stata sviluppata in modo esaustivo. Non è una definizione dogmatica, eppure deve essere rispettata da tutti. Nessuno può contraddirla pubblicamente eppure può essere oggetto di studio, come nel caso della validità delle ordinazioni nella Comunione anglicana.
V. Dubium sull’affermazione “il perdono è un diritto umano” e sull’insistenza del Santo Padre sul dovere di assolvere tutti e sempre, per cui il pentimento non sarebbe una condizione necessaria per l’assoluzione sacramentale.
Ci si chiede se sia ancora in vigore l’insegnamento del Concilio di Trento, secondo il quale, per la validità della confessione sacramentale, è necessaria la contrizione del penitente, che consiste nel detestare il peccato commesso con l’intenzione di non peccare più (Sessione XIV, Capitolo IV: DH 1676), per cui il sacerdote deve rimandare l’assoluzione quando è evidente che questa condizione non è soddisfatta.
La risposta di Papa Francesco:
a) Il pentimento è necessario per la validità dell’assoluzione sacramentale e implica il proposito di non peccare, ma qui non c’è matematica e ancora una volta devo ricordarvi che il confessionale non è una dogana. Non siamo padroni, ma umili amministratori dei sacramenti che nutrono i fedeli, perché questi doni del Signore, più che reliquie da custodire, sono aiuti dello Spirito Santo per la vita del popolo.
b) Ci sono molti modi di esprimere il pentimento. Spesso, in persone che hanno un’autostima molto ferita, dichiararsi colpevoli è una tortura crudele, ma l’atto stesso di accostarsi alla confessione è un’espressione simbolica di pentimento e di ricerca dell’aiuto divino.
c) Vorrei anche ricordare che “a volte è molto difficile per noi fare spazio nella pastorale all’amore incondizionato di Dio” (Amoris laetitia 311), ma dobbiamo imparare a farlo. Seguendo San Giovanni Paolo II, sostengo che non dobbiamo esigere dai fedeli propositi di emendamento troppo precisi e sicuri, che alla fine finiscono per essere astratti o addirittura egoistici, ma che anche la prevedibilità di una nuova caduta “non pregiudica l’autenticità del proposito” (San Giovanni Paolo II, Lettera al Card. William W. Baum e ai partecipanti al corso annuale della Penitenzieria Apostolica, 22 marzo 1996, 5).
d) Infine, deve essere chiaro che tutte le condizioni normalmente legate alla confessione non sono generalmente applicabili quando la persona è in stato di agonia o con capacità mentali e psichiche molto limitate.
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