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Il cardinale Müller contraddice il cardinale Fernández sulla comunione ai divorziati: non si può fare

Per l’ex prefetto della Dottrina della fede, la risposta del cardinale Fernandez al cardinale Duka rappresenta un potenziale scismatico.

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Foto: Vatican.va

Redazione (15/10/2023 13:27, Gaudium Press) In seguito alla consultazione presentata al Dicastero per la Dottrina della Fede dal cardinale ceco Dominik Duka, e alla successiva risposta del cardinale Víctor Fernández, sulla possibilità di comunione ai divorziati, è intervenuto il cardinale Gerhard Müller, ex prefetto della Dottrina della Fede.

In merito alla comunione ai divorziati risposati, il cardinale argentino Fernandez aveva risposto che i vescovi dovrebbero sviluppare nelle loro diocesi dei criteri basati sull’esortazione Amoris Laetitia, criteri come quelli proposti dai vescovi della regione pastorale di Buenos Aires, dal momento che Papa Francesco ha confermato questi criteri come “l’unica interpretazione possibile” di questa esortazione post-sinodale, che dovrebbe essere presa come “magistero autentico” del Pontefice e che non sarebbero state date altre spiegazioni esaustive. Tale interpretazione sottolineava che, dopo il discernimento, era possibile in alcuni casi dare la comunione a persone in simili unioni.

Ma il cardinale Müller sostiene che questi criteri sono contrari al magistero cattolico:

“Dovremmo prestare obbedienza religiosa al testo di Buenos Aires? – si chiede il porporato tedesco. Dal punto di vista formale, è già discutibile pretendere l’obbedienza dell’intelletto e della volontà a un’interpretazione teologicamente ambigua di una conferenza episcopale parziale (la regione di Buenos Aires), che a sua volta interpreta un’affermazione di ‘Amoris Laetitia’ che richiede una spiegazione e la sua coerenza con l’insegnamento di Cristo (Mc 10,1-12) è messa in discussione”.

“Inoltre, il testo di Buenos Aires si presenta in discontinuità almeno con gli insegnamenti di Giovanni Paolo II (Familiaris Consortio 84) e Benedetto XVI (“Sacramentum Caritatis 29). E, anche se la “Risposta” non lo dice, ai documenti del magistero ordinario di questi due Papi va dato anche un riconoscimento religioso di intelligenza e volontà”.

Il cardinale Müller poi aggiunge:

“La risposta della Dottrina della Fede conferma che il magistero di Francesco contraddice espressamente il magistero dei Papi che lo hanno preceduto. Il magistero di San Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI esclude la possibilità per le persone divorziate e risposate di ricevere la comunione e l’assoluzione se non interrompono la convivenza coniugale”.

Per il cardinale tedesco, il testo della Risposta del cardinale Fernandez non solo si scontra con il magistero degli ultimi due papi, ma anche con la verità cattolica:

“Ma la difficoltà nei confronti dell’insegnamento della “Risposta” e del testo di Buenos Aires non sta solo nella sua discontinuità con l’insegnamento di San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Infatti, questa formulazione si oppone ad altri insegnamenti della Chiesa, che non sono solo affermazioni del magistero ordinario, ma che sono stati insegnati in modo definitivo come appartenenti al deposito della fede”.

Il cardinale Müller spiega perché la dichiarazione del cardinale Fernandez si scontra con la dottrina cattolica in questo modo:

“Il Concilio di Trento insegna infatti le seguenti verità: che la confessione sacramentale di tutti i peccati gravi è necessaria per la salvezza (DH 1706-1707); che vivere in una seconda unione come marito e moglie mentre esiste il vincolo coniugale è un peccato grave di adulterio (DH 1807); che una condizione per dare l’assoluzione è la contrizione del penitente, che include il dolore per il peccato e il proposito di non peccare più (DH 1676); che è impossibile per qualsiasi battezzato osservare i precetti divini (DH 1536,1568).

Tutte queste affermazioni non richiedono solo un ossequio religioso, ma devono essere credute con fede ferma, come contenute nella Rivelazione, o almeno accettate e tenute ferme come verità proposte dalla Chiesa in modo definitivo. In altre parole, non si tratta più di una scelta tra due proposizioni del Magistero ordinario, ma è in gioco l’accettazione di elementi costitutivi della dottrina cattolica”.

Per questo motivo:

“Ne consegue che coloro che rifiutano l’interpretazione di Amoris Laetitia offerta dal testo di Buenos Aires e dalla “Risposta” non possono essere accusati di essere in dissenso. Infatti, non si tratta di un’opposizione tra ciò che essi comprendono e ciò che insegna il Magistero, ma di un’opposizione tra diversi insegnamenti dello stesso Magistero, uno dei quali è già stato affermato in modo definitivo dal Magistero”.

Riguardo al fatto che sono i fedeli divorziati e risposati a discernere se accostarsi o meno alla comunione, cosa autorizzata dalla risposta della Dottrina della Fede al cardinale Duka, il cardinale Müller dice: “Risulta che sono i fedeli stessi a decidere se ricevere o meno l’assoluzione, e il sacerdote deve solo accettare questa decisione! Se questo viene applicato in generale a tutti i peccati, il sacramento della Riconciliazione perde il suo significato cattolico. Non è più l’umile richiesta di perdono di chi si trova davanti a un giudice misericordioso, che riceve l’autorità di Cristo stesso; ma l’assoluzione di se stessi dopo aver esplorato la propria vita”.

Il cardinale Müller considera di natura “scismatica” il fatto che le singole diocesi stabiliscano criteri pastorali per questi casi:

“La seconda novità contenuta nella “Risposta” è che ogni diocesi è incoraggiata a produrre le proprie linee guida per questo processo di discernimento. Ne deriva una conclusione spontanea: se le linee guida sono diverse, accadrà che alcuni divorziati potranno ricevere l’Eucaristia secondo le linee guida di una diocesi e non secondo quelle di un’altra. Ora, l’unità della Chiesa cattolica ha significato fin dai primi tempi l’unità nella ricezione dell’Eucaristia: mangiando lo stesso pane siamo lo stesso corpo (cfr. 1 Cor 10,17). Se un fedele cattolico può ricevere la comunione in una diocesi, può riceverla in tutte le diocesi che sono in comunione con la Chiesa universale. Questa è l’unità della Chiesa, che si basa e si esprime nell’Eucaristia. Pertanto, se una persona può ricevere la comunione in una Chiesa locale e non può riceverla in un’altra, questa è una definizione esatta di scisma”.

Il cardinale Müller suggerisce al cardinale Duka di sollevare un nuovo quesito al Papa:

” Esistono casi complessi in cui, dopo un tempo di discernimento, è possibile dare l’assoluzione sacramentale a una persona battezzata che ha rapporti sessuali con qualcuno con cui convive in una seconda unione, se questa persona battezzata non vuole prendere la decisione di non continuare questi rapporti?”.

Di seguito il testo integrale della lettera del cardinale Müller al cardinale Duka:

Eminenza, caro fratello Dominik Duka,

ho letto con grande interesse la risposta del Dicastero per la Dottrina della Fede (DDF) al suo “dubia” sull’esortazione apostolica post-sinodale “Amoris Laetitia” (“Risposta a una serie di domande”, di seguito “Risposta”) e vorrei condividere con lei la mia valutazione.

Uno dei dubbi che avete presentato al DDF riguarda l’interpretazione dell'”Amoris Laetitia” contenuta in un comunicato dei vescovi della regione di Buenos Aires del 5 settembre 2016, che consente l’accesso ai sacramenti della confessione e dell’Eucaristia ai divorziati che hanno contratto una seconda unione civile, anche quando continuano a comportarsi come se fossero marito e moglie, senza alcuna intenzione di cambiare vita. La “Risposta” afferma che questo testo di Buenos Aires appartiene al magistero ordinario pontificio, essendo stato accettato dal Papa stesso. Francesco ha infatti affermato che l’interpretazione offerta dai vescovi di Buenos Aires è l’unica interpretazione possibile di “Amoris Laetitia”. Di conseguenza, la “Risposta” indica che il testo di Buenos Aires deve ricevere il riconoscimento religioso dell’intelletto e della volontà, come altri testi del Magistero ordinario del Papa (cfr. “Lumen Gentium” 25,1).

Innanzitutto, è necessario chiarire, dal punto di vista dell’ermeneutica generale della fede cattolica, qual è l’oggetto di questa obbedienza dell’intelletto e della volontà che ogni cattolico deve offrire al magistero autentico del Papa e dei vescovi. In tutta la tradizione dottrinale, e in particolare nella “Lumen Gentium” 25, questa obbedienza religiosa si riferisce alla dottrina della fede e della morale che riflette e garantisce l’intera verità della rivelazione. Le opinioni private di papi e vescovi sono espressamente escluse dal magistero. Anche qualsiasi forma di positivismo magisteriale contraddice la fede cattolica, perché il magistero non può insegnare ciò che non ha nulla a che fare con la Rivelazione, né ciò che contraddice specificamente la Sacra Scrittura (“norma normans non normata”), la tradizione apostolica e le precedenti decisioni definitive del magistero stesso (“Dei Verbum” 10; cfr. DH 3116-3117).

Si deve rendere un’obbedienza religiosa al testo di Buenos Aires? Dal punto di vista formale, è già discutibile pretendere l’obbedienza dell’intelletto e della volontà verso un’interpretazione teologicamente ambigua di una conferenza episcopale parziale (la regione di Buenos Aires), che a sua volta interpreta un’affermazione di “Amoris Laetitia ” che richiede una spiegazione e la cui coerenza con l’insegnamento di Cristo (Mc 10,1-12) è messa in discussione.

Inoltre, il testo di Buenos Aires si presenta in discontinuità almeno con gli insegnamenti di Giovanni Paolo II (“Familiaris Consortio” 84) e Benedetto XVI (“Sacramentum Caritatis” 29). E, anche se la “Risposta” non lo dice, ai documenti del magistero ordinario di questi due Papi va dato anche un riconoscimento religioso di intelligenza e volontà.

Ora, la “Risposta” sostiene che il testo di Buenos Aires offre un’interpretazione di “Amoris Laetitia” in continuità con i Papi precedenti: è così?

Vediamo innanzitutto il contenuto del testo di Buenos Aires, che è riassunto nella “Risposta”. Il paragrafo decisivo della “Risposta” si trova nella risposta al suo terzo “dubium”. Lì, dopo aver detto che già Giovanni Paolo II e Benedetto XVI permettevano l’accesso alla comunione quando i divorziati in una nuova unione accettavano di vivere in continenza, viene indicata la novità di Francesco:

“Francesco sostiene la proposta della piena continenza per i divorziati e i risposati [civilmente] in una nuova unione, ma ammette che ci possono essere difficoltà nel praticarla e quindi permette, in certi casi e dopo un opportuno discernimento, l’amministrazione del sacramento della Riconciliazione anche quando non si riesce a essere fedeli alla continenza proposta dalla Chiesa” [sottolineato nello stesso testo].

Di per sé, l’espressione “non riuscire a essere fedeli alla continenza proposta dalla Chiesa” può essere interpretata in due modi. Il primo: questi divorziati cercano di vivere in continenza, ma, date le difficoltà e a causa della debolezza umana, non ci riescono. In questo caso la “Risposta” potrebbe essere in continuità con l’insegnamento di San Giovanni Paolo II. La seconda: questi divorziati non accettano di vivere in continenza e non ci provano nemmeno (non c’è intenzione di emendarsi), viste le difficoltà che incontrano. In questo caso, ci sarebbe una rottura con il magistero precedente.

Tutto sembra indicare che la “Risposta” si riferisca qui alla seconda possibilità. In realtà, questa ambiguità è risolta nel testo di Buenos Aires, che separa il caso del tentativo di vivere in continenza (n. 5) da altri casi in cui la continenza non viene nemmeno tentata (n. 6). In quest’ultimo caso, i vescovi di Buenos Aires affermano: “In altre circostanze più complesse, e quando non è stato possibile ottenere una dichiarazione di nullità, l’opzione menzionata [tentare di vivere in continenza] può di fatto non essere praticabile”.

È vero che questa frase contiene un’altra ambiguità, affermando: “e quando non è stato possibile ottenere una dichiarazione di nullità”. Alcuni, notando che il testo non dice “e quando il matrimonio non era nullo”, hanno limitato questi casi complessi a quelli in cui, anche se il matrimonio è nullo per ragioni oggettive, queste ragioni non possono essere provate davanti al foro ecclesiale. Come si vede, sebbene Papa Francesco abbia presentato il documento di Buenos Aires come l’unica interpretazione possibile di “Amoris Laetitia”, la questione ermeneutica non è risolta, perché esistono ancora diverse interpretazioni del documento di Buenos Aires. In breve, ciò che si osserva, sia nella “Risposta” che nel testo di Buenos Aires, è una mancanza di precisione nella formulazione, che può consentire interpretazioni alternative.

In ogni caso, a prescindere da queste imprecisioni e dalla visione generale che il testo di Buenos Aires e la “Risposta” offrono, sembra chiaro il significato di entrambi. Si potrebbe formulare come segue: ci sono casi particolari in cui, dopo un periodo di discernimento, è possibile dare l’assoluzione sacramentale a un battezzato che, dopo aver contratto un matrimonio sacramentale, ha rapporti sessuali con qualcuno con cui vive in una seconda unione, senza che il battezzato debba prendere la risoluzione di non continuare ad avere questi rapporti sessuali, o perché discerne che non gli è possibile, o perché discerne che non è la volontà di Dio per lui.

Vediamo innanzitutto se questa affermazione può essere in continuità con gli insegnamenti di San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. L’argomentazione della “Risposta” secondo cui Giovanni Paolo II avrebbe già ammesso alla comunione alcuni di questi divorziati, e che quindi Francesco starebbe solo facendo un passo nella stessa direzione, non regge. La continuità, infatti, non va ricercata nel fatto che qualcuno possa ricevere la comunione, ma nel criterio di ammissione. Infatti, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI permettono di ricevere la comunione a persone che, per gravi motivi, vivono insieme senza avere rapporti sessuali. Ma non lo permettono quando queste persone hanno abitualmente rapporti sessuali, perché qui c’è un peccato oggettivamente grave, nel quale si vuole rimanere e che, attaccando il sacramento del matrimonio, acquista un carattere pubblico. La rottura tra l’insegnamento del documento di Buenos Aires e il magistero di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si percepisce quando si guarda all’essenziale, che è, come ho detto, il criterio di ammissione ai sacramenti.

Per capire meglio, immaginiamo che, per assurdo, un futuro documento della FDD faccia un’argomentazione simile nel caso dell’aborto, dicendo: “Papa Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco hanno già permesso l’aborto in alcuni casi, per esempio quando la madre ha un cancro all’utero e questo cancro deve essere curato; ora è permesso in alcuni altri casi, per esempio nei casi di malformazione del feto, in continuità con ciò che hanno insegnato”. Si può notare la fallacia di questa argomentazione. Il caso di un’operazione per un cancro all’utero è possibile perché non si tratta di un aborto diretto, ma di una conseguenza non voluta di un’azione curativa sulla madre (quello che è stato chiamato il principio del doppio effetto). Non ci sarebbe continuità, ma discontinuità tra le due dottrine, perché la seconda nega il principio che reggeva la prima posizione e che evidenziava il male di ogni aborto diretto.

Ma la difficoltà dell’insegnamento della “Risposta” e del testo di Buenos Aires non sta solo nella sua discontinuità con l’insegnamento di San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Infatti, questa formulazione si oppone ad altri insegnamenti della Chiesa, che non sono solo affermazioni del magistero ordinario, ma che sono stati insegnati in modo definitivo come appartenenti al deposito della fede.

Il Concilio di Trento insegna, infatti, le seguenti verità: che la confessione sacramentale di tutti i peccati gravi è necessaria per la salvezza (DH 1706-1707); che vivere in una seconda unione come marito e moglie mentre esiste il vincolo coniugale è un peccato grave di adulterio (DH 1807); che una condizione per dare l’assoluzione è la contrizione del penitente, che include il dolore per il peccato e il proposito di non peccare più (DH 1676); che è impossibile per qualsiasi battezzato osservare i precetti divini (DH 1536,1568). Tutte queste affermazioni non richiedono solo un ossequio religioso, ma devono essere credute con fede ferma, come contenute nella rivelazione, o almeno accettate e tenute ferme come verità proposte dalla Chiesa in modo definitivo. In altre parole, non si tratta più di una scelta tra due proposizioni del Magistero ordinario, ma è in gioco l’accettazione di elementi costitutivi della dottrina cattolica.

La testimonianza di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e del Concilio di Trento viene, infatti, ricondotta alla chiara testimonianza della Parola di Dio, che il Magistero serve. Su questa testimonianza deve basarsi tutta la pastorale per i cattolici in seconde nozze dopo il divorzio civile, perché solo l’obbedienza alla volontà di Dio può servire alla salvezza delle persone. Gesù dice: “Chiunque divorzia dalla propria moglie e ne sposa un’altra commette adulterio nei suoi confronti. Anche la donna commette adulterio quando divorzia dal marito e ne sposa un altro” (Mc 10,11s). E la conseguenza è: “Né i fornicatori né gli adulteri… erediteranno il regno di Dio” (1 Cor 6,9). Ciò significa anche che queste persone battezzate non sono degne di ricevere la Santa Comunione prima di aver ricevuto l’assoluzione sacramentale, che a sua volta richiede il pentimento per i propri peccati, insieme al proposito di emendarsi in seguito. Non c’è alcuna mancanza di misericordia qui, al contrario. Perché la misericordia del Vangelo non consiste nel tollerare il peccato, ma nel rigenerare il cuore dei fedeli affinché vivano secondo la pienezza dell’amore che Cristo ha vissuto e ci ha insegnato a vivere.

Ne consegue che coloro che rifiutano l’interpretazione di “Amoris Laetitia” offerta dal testo di Buenos Aires e dalla “Risposta” non possono essere accusati di essere in dissenso. Infatti, non si tratta di un’opposizione tra ciò che essi comprendono e ciò che insegna il Magistero, ma di un’opposizione tra diversi insegnamenti dello stesso Magistero, uno dei quali è già stato affermato in modo definitivo dal Magistero. Sant’Ignazio di Loyola ci invita a ritenere che ciò che vediamo bianco è nero se la Chiesa gerarchica lo stabilisce. Ma Sant’Ignazio non ci invita a credere, affidandoci al Magistero, che ciò che il Magistero stesso ci ha detto prima, e in modo definitivo, essere nero, sia bianco.

Le difficoltà sollevate dal testo della “Risposta” non finiscono qui. Infatti, la “Risposta” va oltre quanto affermato in “Amoris Laetitia” e nel documento di Buenos Aires su due punti gravi.

Il primo riguarda la domanda: chi decide sulla possibilità di amministrare l’assoluzione sacramentale al termine del percorso di discernimento? Il “dubium”, caro fratello, che lei ha presentato al DDF solleva diverse alternative che le sembrano possibili: potrebbe essere il parroco, il vicario episcopale, il penitenziere… Ma la soluzione data dalla “Risposta” deve essere stata per lei una vera sorpresa, perché non poteva nemmeno immaginarla. Infatti, secondo i DDF, la decisione finale deve essere presa in coscienza da ogni fedele (n.5). Se ne deduce che il confessore si limita a obbedire a questa decisione in coscienza. Colpisce che si dica che la persona deve “mettersi davanti a Dio ed esporgli la propria coscienza, con le sue possibilità e i suoi limiti” (ibid.). Se la coscienza è la voce di Dio nell’uomo (“Gaudium et Spes” 36), non è chiaro il significato di “mettere la propria coscienza davanti a Dio”. Sembra che qui la coscienza sia piuttosto il punto di vista privato di ogni persona, che poi viene posto davanti a Dio.

Ma lasciamo da parte questo aspetto e guardiamo alla sorprendente affermazione del testo FDD. Si scopre che sono i fedeli stessi a decidere se ricevere o meno l’assoluzione, e il sacerdote deve solo accettare questa decisione! Se questo vale in generale per tutti i peccati, il sacramento della Riconciliazione perde il suo significato cattolico. Non è più l’umile richiesta di perdono di chi si trova davanti a un giudice misericordioso, che riceve l’autorità di Cristo stesso; ma l’assoluzione di se stessi dopo aver esplorato la propria vita. Questo non è lontano da una visione protestante del sacramento, condannata da Trento, quando insiste sul ruolo del sacerdote come giudice nella confessione (cfr. DH 1685; 1704; 1709). Il Vangelo afferma, riferendosi al potere delle chiavi: “Tutto ciò che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo” (Mt 16,19). Ma il Vangelo non dice: “ciò che gli uomini decidono in coscienza che dovete sciogliere in terra, sarà sciolto in cielo”. È sorprendente che il DDF abbia potuto presentare al Santo Padre per la sua firma, nel corso di un’udienza, un testo con un tale errore teologico, compromettendo così l’autorità del Santo Padre.

La sorpresa è tanto più grande perché la “Risposta” cerca di appoggiarsi a Giovanni Paolo II per sostenere che la decisione spetta ai singoli fedeli, tacendo il fatto che il testo di Giovanni Paolo II è direttamente opposto alla “Risposta”. Infatti, la “Risposta” cita “Ecclesia de Eucharistia” 37b, dove si dice, nel caso della ricezione dell’Eucaristia: “Il giudizio sullo stato di grazia, ovviamente, appartiene unicamente alla persona interessata, trattandosi di una valutazione di coscienza”. Ora, si veda ciò che Giovanni Paolo II aggiunge successivamente, che la “Risposta” non cita, e che è l’idea principale del paragrafo citato da “Ecclesia de Eucharistia”: “Tuttavia, nei casi di gravi comportamenti esterni, apertamente e stabilmente contrari alla norma morale, la Chiesa, nella sua cura pastorale per il buon ordine della comunità e per rispetto del Sacramento, non può essere indifferente. È a questa situazione di manifesta indisposizione morale che si riferisce la norma del Codice di Diritto Canonico, che non consente l’ammissione alla comunione eucaristica a chi “persiste ostinatamente in un peccato grave e manifesto” (ibidem). Come si può notare, la FDD ha selezionato una parte minore del testo di San Giovanni Paolo II e ha omesso la parte principale, che si oppone alla tesi della FDD. Se la FDD vuole presentare un insegnamento contrario a quello di San Giovanni Paolo II, il minimo che può fare è non cercare di usare il nome e l’autorità del santo Pontefice. Sarebbe meglio riconoscere onestamente che, secondo la FDD, Giovanni Paolo II si è sbagliato in questo insegnamento del suo Magistero.

La seconda novità contenuta nella “Risposta” è che ogni diocesi è incoraggiata a produrre le proprie linee guida per questo processo di discernimento. Questo porta a una conclusione spontanea: se le linee guida sono diverse, accadrà che alcuni divorziati potranno ricevere l’Eucaristia secondo le linee guida di una diocesi e non secondo quelle di un’altra. Ora, l’unità della Chiesa cattolica ha significato fin dai primi tempi l’unità nella ricezione dell’Eucaristia: mangiando lo stesso pane siamo lo stesso corpo (cfr. 1 Cor 10,17). Se un fedele cattolico può ricevere la comunione in una diocesi, può riceverla in tutte le diocesi che sono in comunione con la Chiesa universale. Questa è l’unità della Chiesa, che si basa e si esprime nell’Eucaristia. Pertanto, il fatto che una persona possa ricevere la comunione in una chiesa locale e non possa riceverla in un’altra è una definizione esatta di scisma. È impensabile che la “Risposta” della FDD voglia promuovere una cosa del genere, ma questi sarebbero i probabili effetti dell’accettazione del suo insegnamento.

Di fronte a tutte queste difficoltà, qual è la via d’uscita per i fedeli che vogliono rimanere fedeli alla dottrina cattolica? Ho già sottolineato che il testo di Buenos Aires e quello della “Risposta” non sono precisi. Non dicono chiaramente cosa vogliono dire, e quindi lasciano aperte altre interpretazioni, per quanto contorte. Questo lascia spazio a dubbi sulla loro interpretazione. D’altra parte, il modo in cui la “Risposta” conferma l’approvazione del Santo Padre, con una semplice firma datata a piè di pagina, è insolito. La formula abituale è stata: “il Santo Padre approva il testo e ordina (o permette) la pubblicazione”, ma nulla di tutto ciò appare in questo “Appunto” poco curato. Si apre così un altro spiraglio di dubbio sull’autorità della “Risposta”.

Possiamo approfittare di questi dubbi per sollevare un nuovo “dubium”, secondo quanto ho formulato sopra: esistono casi complessi in cui, dopo un tempo di discernimento, è possibile dare l’assoluzione sacramentale a un battezzato che ha rapporti sessuali con una persona con cui vive una seconda unione, se questo battezzato non vuole prendere la risoluzione di non continuare ad avere questi rapporti?

Caro fratello, finché questo “dubium” non viene risolto, l’autorità della risposta al tuo “dubia” e della lettera di Buenos Aires rimane in sospeso, data l’imprecisione che riflettono. Questo apre un piccolo spiraglio di speranza che non ci sia una risposta positiva a questo “dubium”. Se questa risposta fosse negativa, a beneficiarne non sarebbero in primo luogo i fedeli, che in ogni caso non sarebbero obbligati ad accettare una risposta positiva al “dubium” in quanto in contraddizione con la dottrina cattolica. Il principale beneficiario sarebbe l’autorità che risponde al “dubium”, che rimarrebbe intatta, in quanto non chiederebbe più un dono religioso ai fedeli per verità contrarie alla dottrina cattolica.

Sperando che questa spiegazione chiarisca il significato della risposta che avete ricevuto dalla DDF, vi invio fraterni saluti “in Domino Iesu”,

Cardinale Gerhard Ludwig Cardinale Müller, Roma

 

Pubblicato originariamente su “Settimo Cielo”.

Con informazioni tratte da Infocatólica

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