San Charbel Makhlouf – Pace dell’anima, silenzio e solitudine
Il 24 luglio, la Chiesa ricorda la memoria di San Charbel Makhlouf, monaco maronita e uno dei più luminosi modelli di spirito contemplativo.
Redazione (24/07/2025 13:03, Gaudium Press) Fin dagli albori del cristianesimo, nel firmamento della Chiesa hanno brillato uomini e donne di preghiera che trascorrevano la vita nella contemplazione e nel silenzio, assorti solo in Dio. Completamente spogliati delle preoccupazioni terrene, avevano l’anima fissa su un unico fine: vacare Deo – riposare in Dio, donarsi a Dio.
In Libano
Torniamo indietro di quasi due secoli e viaggiamo, alla ricerca di una di queste anime, in un paese dalle montagne ripide le cui meraviglie sono state innumerevoli volte proclamate nei Libri Sacri: il Libano.
Fu lì che, nel 1828, nel villaggio di Beqaa Kafra, nacque all’ombra dei cedri secolari il piccolo Youssef Makhlouf.
Dio comincia a parlargli al cuore … e lui ascolta
Quando era ancora in tenera età, morì suo padre, Antun Za’rur Makhlouf, ridotto ai lavori forzati dall’esercito ottomano. Sua madre, Brigida, si era risposata, lasciando la casa e le piccole proprietà di Antun ai figli, che passarono sotto la tutela dello zio paterno, Tannus.
Propenso alla pietà e alla devozione, spettava al piccolo Youssef, pur essendo il più giovane di cinque fratelli, dare loro il buon esempio nella devozione e nell’adempimento dei doveri. Dotato di uno spirito pio e altamente sottomesso, recitava quotidianamente le preghiere con la famiglia e svolgeva con grande cura il compito di sorvegliare gli animali al pascolo.
Le sue virtù divennero presto evidenti a tutti gli abitanti del villaggio. Amava la solitudine, era prudente e intelligente. In chiesa, rimaneva raccolto, senza nemmeno guardarsi intorno. Il suo comportamento era così esemplare che i ragazzi della regione lo chiamavano “il Santo”.
La Provvidenza preparò poco a poco l’anima di questo suo figlio eletto, al punto che, mentre era ancora in questo mondo, lo utilizzò solo per realizzare l’unica aspirazione della sua vita. “Quando Dio vuole unirsi intimamente a un uomo e parlargli al cuore, lo conduce alla solitudine. Se si tratta di un uomo chiamato alla vita religiosa contemplativa, Dio, per realizzare il suo desiderio, comincia col separarlo dal mondo”.
Fu così che, nell’anno 1851, all’età di 23 anni, Youssef lasciò la casa materna ed entrò nel Monastero di Nostra Signora, a Maïfuq, dove adottò il nome di Charbel, in onore del martire di Edessa, del II secolo.
Da Maifouk a San Maron di Annaya
Tuttavia, con questo desiderio di isolarsi dal mondo che gli bruciava nell’anima, Maifouk non era certamente l’ambiente più adatto alla realizzazione del suo ideale. Sebbene lì conducesse una vita di preghiera e di lavoro, come richiedeva la santa Regola, il contatto con i contadini vicini danneggiava molto il suo raccoglimento.
Un giorno, mentre i novizi erano impegnati nel loro compito quotidiano di togliere le foglie e le cortecce dai gelsi per l’allevamento dei bachi da seta, una ragazza che lavorava lì vicino, volendo mettere alla prova il silenzio e la serietà di Charbel, gli lanciò in faccia un bozzolo.
Non ottenendo alcun risultato, gliene lanciò un altro. Il giovane novizio rimase impassibile, ma quella stessa notte lasciò il monastero di Maifouk senza dire nulla a nessuno e si ritirò nel convento di San Maron di Annaya, situato a quattro ore di cammino.
Lì ricominciò il noviziato, separato dal mondo da una severa clausura, osservando la regola che lo guidava sulla via della contemplazione, del raccoglimento, della preghiera e dell’obbedienza. Due anni dopo ricevette l’abito dei maroniti – tunica nera, cappuccio a forma di cono e cordone di pelle di capra – e pronunciò i voti di povertà, castità e obbedienza. Da allora fu un monaco immerso nell’anonimato e nei suoi colloqui con Dio.
Sebbene facesse di tutto per relegarsi nell’oblio, la sua santità divenne nota agli altri religiosi. Per decisione del superiore e del consiglio della comunità, fu ammesso agli ordini sacri e, dopo aver compiuto gli studi necessari, ricevette l’ordinazione presbiterale nel 1859.
Charbel celebrava il Santo Sacrificio con la massima dignità e con una fede così viva che spesso, durante la Consacrazione, le lacrime scorrevano dai suoi occhi scuri e profondi, che erano come due finestre aperte sul Cielo. E nella contemplazione era così assorto che non prestava alcuna attenzione a eventuali rumori o fruscii.
Un modello di obbedienza e purezza
Dal tempo del noviziato fino al suo ultimo respiro, si distinse come monaco esemplare nell’obbedienza e nell’osservanza della Regola. Al punto che, quando il Superiore ordinava a un monaco di fare qualcosa di molto difficile, era frequente sentire una risposta del tipo:
– Pensate forse che io sia padre Charbel?
Una volta, quando era ancora novizio, un sacerdote decise di mettere alla prova la sua pazienza.
Al momento di trasportare da un campo all’altro gli attrezzi agricoli, cominciò ad ammucchiare sulle sue spalle sacchi di semi, pezzi di aratri, attrezzi e altro materiale…
Quando ebbe finito, si vedeva in mezzo al carico il volto sorridente di Charbel che ripeteva il rimprovero di Gesù ai dottori della Legge: «Guai a voi, che caricate gli uomini di pesi che non possono portare…» (Lc 11, 46).
Tutti risero di questa battuta spiritosa e si affrettarono a liberarlo dal carico in eccesso.
Brillò anche in modo particolare nella lotta per preservare la virtù della castità, con atti di eroismo estremo, senza mai mostrare agli altri le mortificazioni che faceva. La Regola dell’Ordine esorta i monaci a frenare con ogni impegno i propri sensi. Tra le altre attitudini di vigilanza, li esorta ad evitare qualsiasi conversazione con persone di sesso femminile, anche se si tratta di parenti. San Charbel andò oltre: fece e mantenne il proposito di non guardare mai il volto di una donna.
Il dono di compiere miracoli
Aveva il dono di compiere miracoli e lo esercitava con la sua consueta umiltà.
Una volta, una povera donna affetta da emorroidi, la cui malattia resisteva a tutte le cure, incaricò un messaggero di consegnare al padre Charbel una certa somma di denaro e di chiedergli di inviarle una cintura benedetta. C’è una devozione mariana tipica del Libano: nelle situazioni di emergenza – calamità pubbliche, epidemie, guerre, ecc. – i capifamiglia portano in chiesa un velo di seta o di cotone; questi veli vengono intrecciati e appesi intorno alla cappella, finché la Vergine non fa cessare la sventura. Il padre Charbel prese allora uno di questi veli, che era sull’immagine della Madonna del Rosario, e lo consegnò al messaggero, dicendo:
– Che la donna si cinga con questo velo e sarà guarita. Quanto all’elemosina, mettila sull’altare, il padre economo la prenderà. – E la donna fu guarita.
Nella capanna di San Pietro e San Paolo
Poiché la solitudine lo attirava fin dall’infanzia e nel monastero di Annaya viveva già praticamente come un anacoreta, fu trasferito nella capanna di San Pietro e San Paolo, a poca distanza dal monastero. Aveva allora 47 anni e vi rimase fino al giorno della sua morte, avvenuta 23 anni dopo.
La sua preghiera era interrotta solo dalla coltivazione della vigna e da altri lavori nella cappella. L’unico pasto della giornata, verso le tre del pomeriggio, era un esercizio di penitenza, data l’esiguità e la povertà del cibo.
La sua devozione a Maria era incomparabile. Ripeteva continuamente il suo nome benedetto e ogni volta che entrava o usciva dalla sua cella recitava, in ginocchio, il saluto angelico davanti a una piccola immagine che si trovava lì.
Proverbiale era anche la sua serenità d’animo. In un giorno di tempesta, un fulmine abbatté parte dell’ala meridionale dell’eremo, abbatté un muro della vigna e bruciò, nella cappella, i paramenti dell’altare, mentre il santo monaco era lì in preghiera.
Due eremiti accorsero sul posto e lo videro nella più beata tranquillità.
– Padre Charbel, perché non si è mosso per spegnere il fuoco?
– Caro fratello, come avrei potuto farlo? Infatti, subito dopo essersi acceso, il fuoco si è spento…
In effetti, poiché l’incendio era stato rapidissimo, egli aveva ritenuto più importante continuare la sua preghiera senza disturbarsi.
Nascita alla vita eterna
Mentre celebrava la Messa il 16 dicembre 1898, nel momento in cui comunicava il Preziosissimo Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo, un improvviso attacco apoplettico lo lasciò paralizzato, incapace di concludere il Santo Sacrificio. Soccorso senza indugio, fu portato nella sua povera cella, dove rimase otto giorni tra la vita e la morte, con intervalli di lucidità durante i quali recitava brevi preghiere.
La vigilia di Natale, mentre la Chiesa celebrava la venuta al mondo del Bambino Gesù, nacque all’eternità quel santo monaco maronita, il primo orientale ad essere canonizzato secondo la forma usata nella Chiesa cattolica latina.
Le sue spoglie mortali furono sepolte in una fossa comune, insieme a quelle degli altri monaci defunti, come richiedeva la santa Regola. E da quel momento, il cimitero fu illuminato di notte da una luce soffusa e misteriosa. Questo e altri prodigi, uniti alla sua fama di santità, portarono al trasferimento dei suoi resti in una nuova tomba, nella cripta della chiesa di San Marone.
La fossa dove era stato sepolto San Charbel era così umida che, al momento dell’esumazione, il corpo apparve letteralmente inzuppato, ma miracolosamente integro e flessibile, e trasudava un liquido rossastro dall’odore gradevole. E quando la nuova tomba fu aperta, nel 1950, 1952 e 1955, si constatò che era ancora flessibile e incorrotto.
La sua vita monastica esemplare e i numerosi miracoli compiuti per sua intercessione portarono Papa Paolo VI a beatificarlo il 5 dicembre 1965, pochi giorni prima della chiusura del Concilio Vaticano II, e a canonizzarlo il 10 ottobre 1977.
Esempio anche per noi
L’esempio di San Charbel Makhlouf indica una via anche ai giorni nostri, poiché il silenzio e la preghiera costituiscono un valido aiuto per risolvere le angosce e le afflizioni dell’uomo contemporaneo.
Si sbaglia chi pensa che il raccoglimento sia un privilegio esclusivo dei religiosi di clausura. È alla portata di tutti noi, perché «la fonte della vera solitudine e del silenzio non sta nelle condizioni o nella qualità del lavoro, ma nel contatto intimo con Dio […]
Il silenzio, così inteso, può trovarsi per strada, nel frastuono del lavoro in fabbrica, nelle attività dei campi, perché è dentro di noi»
Testo tratto dalla rivista Arautos do Evangelho, luglio 2009.
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