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San Gabriele dell’Addolorata, il santo dei giovani, dei miracoli e del sorriso

Il 27 febbraio 1862, a soli 24 anni, San Gabriele dell’ Addolorata, religioso della Congregazione dei Passionisti, morì di tubercolosi. Visse con discrezione, senza attirare l’attenzione su di sé. In realtà, possedeva molte doti che è difficile trovare in una sola persona: era bello nel corpo e nell’anima.

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Redazione (27/02/2024 15:54, Gaudium Press) La graziosa cittadina di Spoleto, in provincia di Perugia, si svegliò raggiante di gioia una mattina dell’ottava dell’Assunzione di Maria, il 22 agosto 1856. I suoi abitanti celebravano con giubilo la festa della Patrona, con un ringraziamento speciale per essere stati liberati dalla peste che aveva devastato la regione negli ultimi anni.

In quelle strade animate, non c’era nessuno che non cadesse in ginocchio alla vista dell’icona miracolosa della Madonna del Duomo, dipinta da San Luca, che sfilava in pompa magna. Tutti speravano di ricevere da lei una grazia agognata, una consolazione, una benedizione speciale.

“Cosa ci fai nel mondo? Non sei fatto per questo!”.

Tra la folla di fedeli che aspettavano il passaggio della venerata icona, quel giorno spiccava un giovane dal portamento distinto.

Quando la Sacra Immagine della Beata Vergine passò davanti a lui e il suo sguardo incontrò gli occhi estatici dell’immagine, sentì chiaramente dentro di sé queste indimenticabili parole: “Francesco, cosa fai nel mondo? Non sei fatto per questo. Segui la tua vocazione!”.

In quel momento, tra tante lacrime di gratitudine e di compassione che scorrevano liberamente sul suo volto, prese la ferma decisione che aveva rimandato per molto tempo: diventare un religioso, e decise di entrare nella Congregazione dei Passionisti.

Vivace, gentile e pieno di affetto

Nato il 1° marzo 1838 ad Assisi, fu battezzato lo stesso giorno con il nome di Francesco, in onore del Poverello. Era undicesimo di tredici figli e suo padre, l’avvocato Sante Possenti, era all’epoca sindaco della città. La madre, Angese Frisciotti, apparteneva a una famiglia nobile e morì quando lui aveva solo quattro anni.

Pur avendo un cuore incline alla generosità e alla compassione, nell’animo di quel tenero ragazzo c’era un temperamento indomabile che, se contrastato, si esternava molte volte in scatti d’ira, durante i quali i suoi occhi scuri si velavano e i suoi piedi battevano a terra con energia.

Quando lui aveva tre anni, si trasferì con la famiglia a Spoleto, dove trascorse l’infanzia e l’adolescenza. Lì Francesco si distinse per il suo carattere vivace, pieno di affetto, per le parole gentili, facili e divertenti, per la voce sonora e lo sguardo penetrante.

“Vivevo solo per un po’ di fumo!”.

All’età di 13 anni iniziò a frequentare la scuola dei gesuiti, dove si distinse tra tutti i suoi compagni. Era “il preferito per declamare alle serate accademiche. [Tutti lo volevano, tutti gli sorridevano, tutto andava secondo i suoi desideri… Il suo più grande piacere era brillare alle feste, alle serate e in teatro”.

Anche la danza era per lui una grande fonte di attrazione. Ballava con tale abilità da essere soprannominato “il ballerino” e come tale intratteneva i salotti più alla moda della città.

Questi momenti trascorsi in frivole distrazioni tormentarono in seguito la sua coscienza, portandolo a esclamare spesso: “Oh, vanità dei miei passatempi!… Come sono cieca!… Ho vissuto solo per un po’ di fumo!…”.

Un cilicio sotto i suoi abiti eleganti

Ma il giovane Francesco professava una fede pura e sincera. Nessuno avrebbe potuto immaginare che questo giovane, applaudito e apprezzato da tutti, indossasse sotto i suoi abiti eleganti e lussuosi un rozzo cilicio di cuoio tempestato di spuntoni di ferro.

Nel turbinio superficiale degli eventi, cominciò a emergere nella sua anima il desiderio di intraprendere un giorno la vita religiosa.

Una rinuncia ardua, fatta con gioia

Dopo la morte della madre, la sorella maggiore, Maria Luisa, era stata uno dei suoi principali sostegni. Molto bella, era nel fiore degli anni quando a Spoleto scoppiò una devastante epidemia di colera, di cui lei fu la prima vittima… La morte della giovane donna, nel 1855, colpì Francesco come un fulmine a ciel sereno.

La Provvidenza se ne servì per aprirgli gli occhi sulla sua vocazione. Poco dopo la sua morte, comunicò al padre la sua decisione di entrare in convento. Il padre, però, gli negò l’autorizzazione, temendo che tale desiderio fosse il frutto effimero di un momento di dolore.

Questo timore sembrò confermarsi perché, con il passare del tempo, le attrattive del mondo cominciarono ad affievolire di nuovo quel desiderio interiore…

Fu in questa situazione che avvenne l’incontro cruciale con la Sacra Icona, grazie al quale il giovane riluttante decise di abbracciare per sempre la vita religiosa.

Pochi giorni dopo questo episodio, il 5 settembre, la società più esclusiva di Spoleto si riunì nella sala delle cerimonie del Liceo dei Gesuiti per assistere alla distribuzione dei premi di fine anno. In qualità di presidente dell’Accademia letteraria, Francesco occupava un posto di rilievo nella sala.

Quando arrivò il momento di salire sul palco, il pubblico esplose in esclamazioni di entusiasmo alla vista di un diciottenne che si presentava con tanta eleganza e distinzione.

“Quel timbro di voce, quella sonorità, quella vocalizzazione e, soprattutto, quella grazia nell’espressione e nei gesti elettrizzavano e scuotevano i cuori più apatici”.

Una volta terminato il discorso, tutti volevano congratularsi con lui, acclamarlo, salutarlo, e lui rispondeva con il suo solito sorriso.

Ma la decisione era presa. Il giorno dopo sarebbe partito per un cambiamento di vita definitivo. A soli 18 anni, stava lasciando un futuro radioso per una vita di rinuncia e di isolamento. Stava compiendo un passo arduo, ma con il cuore pervaso dalla gioia.

Passionista per sempre

Il mattino seguente, Francesco partì felice da Spoleto per Loreto, dove trascorse alcuni giorni rafforzando i legami di amore e devozione a Maria Santissima, presso il famoso santuario.

Da lì si recò a Morrovalle per iniziare il noviziato passionista.

“Lui, l’elegante ballerino, il brillante intrattenitore dei salotti di Spoleto, scelse di entrare nell’austero Istituto dei Passionisti, fondato nel 1720 da San Paolo della Croce, con la missione di annunciare, attraverso la vita contemplativa e l’apostolato, l’amore di Dio rivelato nella Passione di Cristo”.

Il cambio di nome in Gabriele dell’Addolorata segnò la morte della sua vita passata e l’inizio del suo cammino verso la perfezione.

Quando, nelle conversazioni con i suoi compagni di convento, l’argomento si spostava sulle vicende del mondo, egli le interrompeva con un sorriso sereno: “Perché parlare di ciò che dobbiamo abbandonare per sempre? Lasciamo che i morti seppelliscano i loro morti.

Non pensiamo, però, che adattarsi all’austera vita religiosa sia stato facile per questo giovane dalla vita agiata. Abituato ai cibi raffinati, “il cibo insipido del povero convento dei Passionisti gli provocava un’invincibile ripugnanza. Nonostante le proteste della sua natura, si ostinava a mangiarlo, finché i suoi compassionevoli superiori non gli concedevano temporaneamente un po’ di sollievo”.

Lo stesso accadeva per altri aspetti dell’osservanza della disciplina, ma egli si impegnava a rispettare gli orari e gli obblighi del noviziato, per quanto gli costasse fatica, data la sua costituzione delicata.

L’amore per la Passione di Cristo e per Maria Santissima

Durante la sua vita di religioso, ebbe senza dubbio un amore radicato per la Passione del Signore. Sentiva una tale venerazione per le sofferenze di Gesù che non si separava mai dal Crocifisso:

“Quando parlava, lo teneva nascosto nella mano e lo stringeva affettuosamente; quando dormiva, lo metteva sul petto; quando studiava, lo metteva accanto al suo libro e, di tanto in tanto, lo fissava e lo guardava con tale affetto e fervore che l’immagine metallica si consumava fino a cancellare ogni traccia della sua fisionomia”.

Questa devozione caratteristica della congregazione a cui si era unito, tuttavia, si univa a un “amore entusiasta, generoso e appassionato per la Beata Vergine”. Il suo famoso Credo di Maria rivela il fascino di quest’anima innamorata della Madre di Dio:

“Credo, o Maria, […] che tu sei la Madre di tutti gli uomini. […] Credo che non c’è altro nome, oltre a quello di Gesù, così traboccante di grazia, di speranza e di dolcezza per chi lo invoca. […] Credo che chi si affida a te non cadrà nel peccato e chi ti onora otterrà la vita eterna. […] Credo che la tua bellezza scacci ogni gesto impuro e ispiri pensieri casti”.

Una vita breve, costellata di azioni eroiche

Nella mente del novizio Gabriele non c’era spazio per altri pensieri se non per Gesù e Maria. E sentiva un bisogno così profondo di portare alle ultime conseguenze il suo abbandono a Dio e a Maria che una volta, sentendo i passi del suo direttore spirituale, aprì la porta della cella e, gettandosi ai suoi piedi, lo pregò:

“Padre, se in me si trova qualcosa, per quanto piccola, che non piace a Dio, con il suo aiuto voglio strapparla a tutti i costi!”.

Il sacerdote rispose che non poteva vedere nulla al momento, ma che si sarebbe assicurato di avvertirlo se avesse notato qualche segno. Con questa rassicurazione, il docile religioso si calmò completamente.

La sua breve vita fu costellata di atti ammirevoli, perché praticava tutto con uno spirito di completa elevazione e sublimità: “La nostra perfezione non consiste nel fare cose straordinarie, ma nel fare bene le cose ordinarie”, era solito dire.

L’ultimo sorriso

Dopo un anno e mezzo di noviziato, nel febbraio 1858, Gabriele iniziò gli studi per il sacerdozio, trasferendosi quindi nel convento di Isola del Gran Sasso, dove morì.

Il 25 maggio 1861 prese gli ordini minori nella Cattedrale di Penne. Per misteriosi disegni della Provvidenza, però, non divenne mai sacerdote.

Alla fine dello stesso anno, una terribile tubercolosi lo colpì. Tuttavia, lungi dall’ostacolare il suo cammino sulla via della virtù, la malattia mortale servì ad aiutarlo a salire più rapidamente verso le vette della santità.

Dio dispose che fosse consumato gradualmente dalla malattia, per aumentare i suoi meriti e dare agli altri l’opportunità di essere edificati dal suo esempio.

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Sul letto di morte dovette ancora affrontare il dramma peggiore della sua vita: gli ultimi assalti del demonio e la terribile prova della “notte oscura dell’anima”.

Tuttavia, uscì vittorioso anche da quest’ultima prova. Il sacerdote che lo assisteva nell’ora suprema lo sentì ripetere per tre volte, a brevi intervalli, questa frase di San Bernardo, con la quale riconosceva la propria debolezza davanti a Dio: “I miei meriti sono le tue ferite, Signore!”.

La mattina del 27 febbraio 1862, con il cuore traboccante di gioia, le mani incrociate sul petto, stringendo il Crocifisso e l’immagine della Vergine Addolorata, Gabriele sorrise per l’ultima volta, estasiato, contemplando con gli occhi dell’anima Colui che aveva servito così dolcemente sulla terra. Il “santo del sorriso” aveva allora solo 24 anni.

San Gabriele dell’Addolorata continua ad essere un esempio inestimabile, per i giovani di oggi, di rinuncia senza compromessi al peccato, di amore entusiasta per la Croce di Nostro Signore Gesù Cristo e di profonda devozione a Maria Santissima.

Testo estratto, con adattamenti, dalla rivista Araldi del Vangelo, n. 122, febbraio 2012. Di Sr Lucía Ordoñez Cebolla, EP.

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