Apostolato, fonte di gioia
Come possiamo essere veramente felici? È ciò che ci mostra il Vangelo di questa 14ª domenica del tempo ordinario
Redazione (06/07/2025 09:59, Gaudium Press) È sempre più comune al giorno d’oggi sentire storie di persone che non vogliono più vivere perché, dicono, «la vita non ha più senso». Qual è la causa di questo? Cosa fa perdere alla vita il suo senso?
Insegna don Royo Marín: «Raggiungendo la propria felicità, l’uomo glorifica Dio e, glorificandolo, trova la propria felicità. Sono due fini che si confondono di fatto, anche se tra loro c’è una differenza di ragione. La glorificazione suprema di Dio coincide pienamente con la nostra felicità suprema».[1]
Infatti, l’uomo, per essere felice e trovare la meta del suo pellegrinaggio terreno, ha bisogno di dare gloria al Creatore. Ora, poiché il bene è imminentemente diffusivo,[2] esiste nell’anima umana un desiderio naturale di far partecipare gli altri a questa glorificazione. Vediamo che l’apostolato è una condizione essenziale per raggiungere la felicità ed è proprio di questa missione che parla il Vangelo di questa 14ª domenica del tempo comune.
In cosa consiste l’apostolato?
«In quel tempo, il Signore scelse altri settantadue discepoli e li mandò a due a due davanti a sé, in ogni città e luogo dove lui stesso doveva andare» (Lc 10,1).
Nostro Signore inizia il Vangelo mostrando qual è il vero ruolo dell’apostolo: preparare le anime a ricevere il Maestro. Questa preparazione è importantissima per evitare qualsiasi ostacolo al momento dell’incontro con il Bene Incarnato, ed esige dal discepolo una vera umiltà.
Allo stesso tempo, in questo brano si percepisce lo zelo di Cristo per i suoi discepoli, che li manda sempre in coppia affinché, tra le difficoltà dell’azione nel mondo e gli attacchi del demonio, uno abbia sempre accanto un sostegno.
Qualità o quantità
«E diceva loro: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Perciò chiedete al padrone della messe di mandare operai a raccogliere il raccolto”» (Lc 10,2).
In questo versetto troviamo un principio spesso dimenticato: la qualità è più importante della quantità. Questa sproporzione tra il numero dei missionari e le anime da evangelizzare è una costante nella storia della Chiesa, fin dai suoi inizi: Nostro Signore avrebbe potuto scegliere 120 apostoli, ma ha preferito solo dodici. Perché? Perché sapeva che pochi che si dedicano totalmente sono molto più utili di una moltitudine che serve due padroni. Le grandi opere di Dio nella storia sono guidate da questo principio, poiché il vero apostolo è colui che può essere annoverato tra questi pochi.
Istruzioni per gli inviati
«Ecco, io vi mando come agnelli in mezzo a lupi» (Lc 10,3)
Non volendo alimentare false speranze sulla missione che avrebbero compiuto, Nostro Signore li avverte delle persecuzioni che dovranno affrontare, chiedendo loro una fiducia incondizionata nella sua protezione, nonché vigilanza e saggezza nei confronti degli attacchi dei «lupi».
«Non portate borsa, né sacca, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada» (Lc 10,4).
Al fine di metterli in guardia dalle illusioni del mondo, Nostro Signore usa oggetti rappresentativi delle condizioni sociali ed economiche dell’epoca, per mostrare che i suoi discepoli dovevano abbandonarsi completamente nelle mani della Provvidenza, rinunciando a preoccuparsi eccessivamente delle cose che li legavano alle preoccupazioni superflue che circondano l’esistenza umana.
Vediamo anche un’esortazione a vigilare nei rapporti con le persone, poiché, oltre a ritardare l’adempimento della missione alla quale sono stati inviati, potrebbero essere fonte di cattive influenze che li avrebbero allontanati totalmente dall’ideale al quale servivano.
«Ma quando entrerete in una città e non sarete ben accolti, uscendo per le strade, dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, la scuotiamo contro di voi”» (Lc 10,10-11).
Di fronte al rifiuto, l’apostolo non può tacere; deve incoraggiare il timore di Dio, come dice il profeta: «Grida a squarciagola, non ti vergognare; fa’ risuonare la tua voce come una tromba. Denuncia al mio popolo le sue colpe» (Is 58,1). Il trattamento severo (e giusto), in queste circostanze, è anche una forma di apostolato, che avvicina a Dio attraverso il dolore coloro che non lo hanno voluto per amore.
Ritorno dei discepoli
«I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: “Signore, anche i demoni ci obbediscono nel tuo nome”. Gesù rispose: “Ho visto Satana cadere dal cielo come un fulmine. Io vi ho dato il potere di calpestare serpenti e scorpioni e tutta la forza del nemico. E nulla potrà farvi del male. Non rallegratevi però perché vi obbediscono gli spiriti. Rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Lc 10,17).
Il successo è sempre occasione di una nuova tentazione: l’appropriazione!
Ora, avendo compiuto miracoli, scacciato demoni e guarito malati, i discepoli potevano pensare erroneamente che quel potere venisse da loro stessi, e il desiderio iniziale di glorificare il Maestro poteva, a poco a poco, essere sostituito dall’egoismo. Per evitare questo male nell’anima dei suoi, Gesù mostra che tutte quelle meraviglie erano state compiute nel suo nome e che tutto il potere che avevano ricevuto veniva da Lui; così, non avevano nulla di cui vantarsi, perché senza Cristo non potevano fare nulla.
Subito dopo, Nostro Signore indica la causa sublime per cui dovevano davvero esultare – e qui abbiamo l’insegnamento principale di questa liturgia: perché, avendo compiuto la loro missione sulla terra, glorificando il Creatore e facendo sì che questa gloria fosse data al maggior numero possibile di persone, attraverso l’apostolato collaterale, era loro garantita la vera e eterna felicità, poiché i loro nomi erano «scritti in cielo».
Impegniamoci quindi a esercitare con perfezione il nostro apostolato, per essere degni di un dono così grande e vivere pieni di gioia!
Di Artur Morais
[1] ROYO MARÍN, OP, Antonio. Teología Moral para seglares. Madrid: BAC, 1996, v.I, p.29.
[2] Cfr. TOMÁS DE AQUINO. Summa Theologiæ, I, q. 5, a. 4, arg. 2: «Bonum est diffusivum sui esse». In questo passaggio, l’Aquino riprende una citazione di Dionigi.
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