La Pontificia Accademia per la Vita promuove un libro carico di errori
Un’altra spiacevole sorpresa dall’istituto diretto da Mons. Paglia, che ci sta già abituando a queste situazioni.
Redazione (23/03/2024 17:05, Gaudium Press Il libro Gioia della vita è un testo “frutto della riflessione comune di un qualificato gruppo di teologi riuniti su iniziativa della Pontificia Accademia per la Vita”, come si legge nel libro stesso.
Pubblicato il mese scorso, nell’imminenza del 30° anniversario della memorabile Evangelium Vitae, presenta errori “così numerosi e gravi che il volume Gioia della vita non può certo essere considerato una celebrazione del pensiero di Giovanni Paolo II”, come analizza Tommaso Scandroglio su La Nuova Bussola Quotidiana.
Ad esempio, nel testo si afferma che è meglio non vietare l’eutanasia, perché “potrebbe tradursi in un danno maggiore al bene pubblico e alla convivenza civile, amplificando i conflitti o favorendo forme clandestine di pratiche ufficialmente illegali” (p. 150). Questa argomentazione è quasi una fotocopia di quella dei promotori della legalizzazione dell’aborto. Inoltre, costituisce una chiara rinuncia all’idea che la legislazione civile debba essere in accordo con la morale cattolica. Inoltre, la “pace”, cioè il “non conflitto”, viene posta come regola suprema dell’agire pubblico, sostituendo la conformità alla morale e ai comandamenti, che prescrivono di “non uccidere”, e che sono quelli che portano alla vera pace.
Il linguaggio nebuloso e implicitamente negazionista della morale cattolica permea testi come il seguente:
“Legittimare l’eutanasia? Ha l’inconveniente di ‘avallare’ e giustificare in qualche modo una pratica eticamente controversa o rifiutata. […] Si pone però la questione se la responsabilità penale e civile – ad esempio nel caso dell’aiuto al suicidio – non possa essere qualificata, entro limiti chiaramente stabiliti e al termine di un dibattito culturale e politico-istituzionale” (p. 151).
L’eutanasia non è una pratica “controversa”, almeno non secondo la morale cristiana. E il dibattito “culturale” dovrebbe svolgersi ma in modo che la società accetti gli insegnamenti della Chiesa.
Contraddicendo anche una dottrina già consolidata nella bioetica cattolica, il libro si schiera a favore dell’interruzione dell’alimentazione, dell’idratazione e della ventilazione assistita, perché questi interventi mirerebbero a “concentrarsi sul mantenimento delle funzioni corporee, considerate in modo isolato. In questo modo si perde di vista l’intera persona e il suo bene generale” (p. 173).
Tutto ciò è assurdo, perché proprio questi ausili vitali sono necessari per promuovere il bene generale della persona (senza vita non c’è bene generale), e solo in casi eccezionali risultano sproporzionati. In sostanza, il pensiero alla base di questa affermazione è favorevole all’eutanasia: è meglio togliere questi aiuti, in modo che la persona muoia e “non soffra più”…
Il testo precisa che spetta al paziente l’ultima parola sulla decisione di quando una terapia è proporzionata, per non cadere nell’ostinazione e nell’inerzia terapeutica (cfr. pp. 85, 148-149, 172). Questo può essere vero per alcune terapie, ad esempio per la terapia del dolore. Ma a volte il paziente può valutare male la proporzionalità: ad esempio, può decidere di non amputare un braccio in cancrena, perché tale procedura sembrerebbe sproporzionata, e così commetterebbe un errore. L’affermazione di fondo sembra essere “sono il proprietario del mio corpo e posso farne ciò che voglio…”, il che è anche in contrasto con la morale cattolica.
Il testo, in aperta contraddizione con la tradizione della Chiesa, è favorevole alla fecondazione artificiale omologa, cioè quando questa viene effettuata con il seme del marito (o del partner stabile) della donna: “Nella procreazione assistita omologa nelle sue varie forme […] la generazione non è artificialmente separata dal rapporto sessuale, perché quest’ultimo ‘di per sé’ è sterile. Al contrario, la tecnica agisce come una forma di terapia che permette di rimediare alla sterilità, non sostituendo il rapporto, ma permettendo la generazione” (p. 130).
Diversi gli errori, in queste precedenti affermazioni, come spiega Scandroglio: “Innanzitutto va precisato che nel rapporto sessuale tra marito e moglie in cui uno o entrambi sono sterili o la donna infertile, il rapporto per sua natura rimane fecondo: è essenzialmente fecondo e accidentalmente sterile per patologie o interventi chirurgici o a causa dell’età. Pertanto, non è “di per sé sterile”, come scrive la Pontificia Accademia.
In secondo luogo, anche ammettendo – ipotesi fantasiosa – che il prelievo di ovociti e spermatozoi avvenga dopo il rapporto sessuale e, quindi, si verifichi il concepimento in vitro, il momento unitivo è separato da quello procreativo, perché quest’ultimo non avviene dopo il rapporto sessuale, ma dopo l’intervento del tecnico di laboratorio. Qui la medicina non contribuisce a realizzare ciò che si ottiene per virtù propria (come avviene nell’inseminazione naturale dove il concepimento – momento chiave di passaggio tra l’essere e il non essere – avviene nel corpo della donna grazie alla mobilità degli spermatozoi e non grazie all’intervento dell’uomo),ma, contrariamente a quanto scritto in Gioia della Vita, la medicina si sostituisce a un atto e ai suoi sviluppi naturali che non è lecito sostituire. Inoltre, nell’inseminazione artificiale il concepimento non avviene nell’unico luogo consono alla dignità della persona, cioè nel corpo della donna, ma al di fuori di esso”.
Come spiega Scandroglio, tali concezioni non cattoliche si basano su un’antropologia erronea, che celebra “il primato dell’esperienza di vita e della vita credente” (p. 13). Il primato non si trova più in Dio, ma nell’esperienza, non nella trascendenza ma nell’immanenza. In base alla mia “esperienza”, decido cosa fare, cosa scegliere. È la libertà umana, senza riferimento a Dio, a guidare le mie azioni, cosa che peraltro viene espressa in modo velato nel testo: “Un’ermeneutica della persona in termini di libertà-in-relazione rappresenta un definitivo superamento della nozione tradizionale di persona come rationalis naturae individua substantia [sostanza individuale della natura razionale]. La persona non deve essere compresa alla luce di categorie sostanzialiste, ma nei termini di un processo storico. […] Il passaggio da un’interpretazione della persona in termini di sostanza a un’interpretazione in termini di atto implica la consapevolezza che la comprensione della persona comporta in ultima analisi un valore oggettivante pratico e non teorico. […] L’identità umana non è data una volta per tutte, ma ha una forma storica e narrativa originale” (p. 94).
In altre parole, l’uomo e la sua libertà o i suoi capricci “esperienziali” sono l’ombelico del mondo, senza alcun riferimento alla ragione, alla retta ragione. Disastro.
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