Leone XIV come i suoi predecessori, contro l’antisemitismo.
Nel ricordare che tutti i suoi predecessori hanno condannato l’antisemitismo «con parole chiare», Leone XIV riprende un percorso iniziato ben prima del Concilio Vaticano II.

Foto: Vatican news/ Vatican Media
Redazione (30/10/2025 22:17, Gaudium Press) Il discorso di Leone XIV, pronunciato durante l’udienza generale del 29 ottobre, in cui ribadisce che «la Chiesa non tollera l’antisemitismo», si inserisce in una linea storica di coerenza e continuità del Magistero Pontificio a partire dal XX secolo. Una lettura attenta del testo pubblicato sul sito vatican.va rivela che l’attuale Pontefice non si è limitato a ribadire un principio già consolidato, ma ha voluto piuttosto evocare la genesi teologica dell’amicizia tra cristiani ed ebrei, le cui radici non risiedono in una politica di circostanza, ma nel Vangelo stesso. Nel ricordare che tutti i suoi predecessori hanno condannato l’antisemitismo «con parole chiare», Leone XIV riprende un percorso iniziato ben prima del Concilio Vaticano II e che ha trovato nel documento Nostra aetate solo la sua formulazione dottrinale più esplicita.
Già nel secolo scorso, Pio XII – spesso frainteso dalla storiografia secolarizzata – fu uno dei primi a rendersi conto che la lotta all’antisemitismo non era solo una questione politica, ma un imperativo morale, nato dalla legge naturale e dal comandamento della carità. Durante la seconda guerra mondiale, Papa Pacelli utilizzò i canali diplomatici della Santa Sede per proteggere migliaia di ebrei perseguitati, dando rifugio in conventi e istituti religiosi e promuovendo una silenziosa rete di accoglienza a Roma e in varie diocesi dell’Europa occupata. Nel sostenere che tutti gli uomini sono membri della stessa famiglia umana, Pio XII anticipava il principio che Leone XIV oggi ribadisce: non c’è spazio per l’odio razziale dove c’è vera fede nel Dio di Abramo.
Lo stesso filo spirituale ha legato Giovanni XXIII, che eliminò dalle preghiere del Venerdì Santo l’espressione «perfidi ebrei», e Paolo VI, che promulgò la Nostra aetate nel 1965, testo che Leone XIV definisce «punto di non ritorno» nella coscienza della Chiesa. Questa dichiarazione non è stata un gesto politico, ma teologico: ha riconosciuto che le «radici giudaiche della Chiesa» fanno parte della sua stessa identità e che, pertanto, qualsiasi forma di persecuzione del popolo di Israele ferisce il corpo stesso di Cristo.
Giovanni Paolo II è stato forse il Papa che più visibilmente tradusse in atti concreti la riconciliazione tra cristiani ed ebrei, avviata dalla Nostra aetate. Figlio di una Polonia devastata dall’Olocausto, Giovanni Paolo II portava nella memoria la sofferenza del popolo ebraico come parte della propria storia. Nel 1986 fu il primo Pontefice a visitare una sinagoga, quella di Roma, salutando gli ebrei come «fratelli maggiori nella fede». Nel 2000, durante il suo pellegrinaggio a Gerusalemme, inserì nelle crepe del Muro del Pianto una preghiera in cui chiedeva perdono per i peccati commessi dai figli della Chiesa contro il popolo di Israele. Questi gesti, insieme all’avvio delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e lo Stato di Israele, segnarono una tappa decisiva nel superamento di secoli di diffidenza. Per Giovanni Paolo II, combattere l’antisemitismo non era solo un imperativo morale, ma un dovere teologico: riconoscere nel popolo ebraico l’origine viva della fede cristiana stessa.
Benedetto XVI, tedesco che aveva vissuto la sua giovinezza all’ombra del nazismo, portava nella sua biografia la tragica consapevolezza dell’Olocausto. Nei suoi viaggi ad Auschwitz e a Gerusalemme, parlò con voce commossa del “silenzio di Dio” di fronte all’orrore e ribadì che nessun cristiano può rimanere indifferente alla sofferenza del popolo ebraico. Ricordando la drammatica storia del suo Paese, con insistenza affermò che l’antisemitismo è una negazione del Vangelo e una ferita aperta nell’umanità, curabile solo con la verità e la riconciliazione.
Francesco, in continuità con questa tradizione, aveva ripreso il dialogo con le comunità ebraiche a Roma, Gerusalemme e New York, denunciando ripetutamente la rinascita delle ideologie antisemite e definendole «virus del male». La sua enfasi pastorale – accogliere, dialogare, riconciliare – indicava già che l’amicizia con il popolo ebraico è oggi una via di testimonianza cristiana in questo mondo frammentato.
Leone XIV, tuttavia, amplia questa prospettiva, integrandola nel contesto più ampio del dialogo interreligioso e dell’etica tecnologica. Menzionando l’intelligenza artificiale e la dignità umana, egli mostra che la lotta all’antisemitismo è solo un aspetto della più ampia difesa della persona creata a immagine di Dio.
La sua catechesi parte da un episodio evangelico – l’incontro di Gesù con la samaritana – per indicare che il vero dialogo non nasce dalla diplomazia, ma dalla conversione interiore. È su questo punto che il messaggio del Papa acquista il tono della tradizione spirituale dei pontefici del dopoguerra: il riconoscimento dell’altro non come minaccia, ma come specchio del mistero divino. Così come Pio XII ha affrontato le tenebre del totalitarismo e Francesco ha messo in guardia contro il relativismo culturale, Leone XIV affronta il nuovo pericolo della strumentalizzazione politica delle religioni.
Papa Leone insiste sul fatto che «non dobbiamo permettere che le circostanze politiche e le ingiustizie di alcuni ci allontanino dall’amicizia», frase che, inserita nell’attuale contesto di guerre e polarizzazioni, suona come un monito e una profezia. La Chiesa, afferma il Pontefice, non si lascia trascinare dalle ideologie, perché il suo impegno è verso la verità rivelata, che esclude ogni forma di discriminazione. Qui c’è un’eco diretta delle parole di Pio XII quando afferma che «non c’è distinzione tra gli uomini quando si tratta della salvezza».
Il discorso di oggi rivela quindi una pedagogia della memoria. Leone XIV non crea una nuova dottrina, ma ristabilisce il filo che unisce i pontificati del XX secolo all’urgenza spirituale del presente: svincolare la fede da qualsiasi connotazione politica e ricordare che l’amore per il popolo ebraico non è una concessione diplomatica, ma un atto di fedeltà a Cristo, che era ebreo, originario del popolo di Israele.
La continuità tra Pio XII, Giovanni XXIII, Francesco e Leone XIV dimostra che, per la Chiesa, la lotta all’antisemitismo è anche lotta alla disumanizzazione. Mentre il mondo si abbandona nuovamente al fanatismo e alle manipolazioni ideologiche, la voce dei papi si erge come coscienza viva della fratellanza universale. Invitando ebrei e non cristiani a pregare in Piazza San Pietro, Leone XIV ha voluto sottolineare che non si tratta di una semplice cerimonia ecumenica, ma di un’immagine visibile della speranza che l’umanità, riconciliata con le sue radici spirituali, ritrovi la via della pace.
Di Rafael Tavares
 
                            
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