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San Gregorio Magno

Roma sprofondava nel caos e il corso della storia stava drasticamente cambiando quando un monaco benedettino veniva eletto Papa. Era Gregorio I, che la Storia definì “Magno”, la cui memoria la Chiesa celebra oggi, 3 settembre.

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Redazione (03/09/2025 16:17, Gaudium Press) Come una valanga incontenibile, nel 568, sbarcarono nel nord Italia centomila guerrieri seguiti da oltre cinquecentomila anziani, donne e bambini: i Longobardi. Questo popolo barbaro, di religione ariana, si rivelò ben presto uno dei più crudeli e sanguinari invasori che fino ad allora fossero penetrati nell’Europa occidentale.

Il loro metodo di conquista consisteva nella violenza e nel terrore e, per affermarsi in modo definitivo su quelle terre, eliminavano sistematicamente le élite latine e il resto dell’aristocrazia ancora presente.

Tutto il nord Italia fu conquistato e i sopravvissuti fuggirono a Roma, in cerca di rifugio dagli orrori che accompagnavano l’occupazione longobarda.

La luce della speranza

Autunno del 589. Piogge torrenziali si abbatterono sull’Italia. I campi furono allagati, i raccolti andarono perduti e quasi tutti i fiumi strariparono, distruggendo ponti e inondando molti villaggi e città.

A Roma, il placido Tevere si trasformò in un torrente impetuoso. Il Tevere uscì dal suo letto e raggiunse un livello mai visto prima, devastando la città e sommergendo di fango i quartieri più bassi. La catastrofe raggiunse proporzioni apocalittiche: alla distruzione e alla fame si aggiunse un’epidemia di peste bubbonica che si diffuse rapidamente, decimando la popolazione.

Nel mezzo della tempesta, gli occhi di tutti si volsero verso l’unica Luce del mondo: i sopravvissuti accorrevano giorno e notte nelle chiese, implorando un raggio di luce divina che dissipasse le angosce e le incertezze che oscuravano l’orizzonte.

Così, i romani della fine del VI secolo si resero conto con stupore che la luce divina brillava già per loro in un limpido specchio. Allora il clero, il senato e tutto il popolo acclamarono all’unisono: «Gregorio Papa!».

Era Gregorio la «luce della speranza» che risplendeva in quel tramonto di una civiltà.

I primi anni

Vox populi, vox Dei. Gregorio fu senza dubbio l’uomo provvidenziale, scelto da Dio per governare la Chiesa in quei tempi difficili e decisivi.

Era nato nel 540 da un’antica e nobile famiglia romana, profondamente cattolica e con una lunga storia di fedeltà alla Cattedra di San Pietro.

I suoi genitori erano il senatore Gordiano, che alla fine della sua vita sarebbe entrato nello stato ecclesiastico, e Silvia, una dama nota per la sua pietà e generosità, che avrebbe terminato i suoi giorni ritirata dal mondo e consacrata al Signore. Entrambi, insieme a due zie di Gregorio, Tarsilla ed Emiliana, sono venerati come santi.

Certamente assistette, nella notte del 17 dicembre 546, al terribile ingresso degli Ostrogoti a Roma, seguito dalla deportazione dei suoi abitanti, durata quaranta giorni, periodo in cui la città deserta rimase in balia degli invasori. E forse fissò, desolato, le mura della città rase al suolo per ordine di Totila, re dei barbari.

In questo contrasto tra la devozione dell’ambiente domestico, saldamente radicato nelle tradizioni romane, e l’instabilità di un mondo nuovo che emergeva nella violenza, trascorsero i primi anni dell’esistenza di Gregorio.

Lunga preparazione

Dopo lo sterminio degli Ostrogoti operato dall’esercito dell’imperatore Giustiniano, per diversi anni in Italia regnò una relativa pace che permise a Gregorio, seguendo la tradizione familiare, di intraprendere la carriera giuridica.

La sua acuta intelligenza e la sua insolita capacità organizzativa lo fecero rapidamente emergere negli ambienti colti dell’epoca, e la sua reputazione crebbe con il passare degli anni.

Nel frattempo, come due robusti rami dello stesso albero, crescevano nel suo spirito il desiderio di intraprendere grandi opere per mettere ordine in quella civiltà vacillante e l’aspirazione ad abbandonare il mondo per consacrarsi esclusivamente alla contemplazione delle realtà soprannaturali.

Quando aveva poco più di trent’anni, fu nominato prefetto di Roma, una delle più alte cariche del governo della città. Svolse questa funzione con grande abilità, affrontando difficoltà di ogni tipo, create dal dramma dell’invasione dei Longobardi. Tuttavia, anche nelle occupazioni più assorbenti, risuonava sempre nella sua anima la chiamata a una vita contemplativa.

Nel 575, terminato il tempo prescritto, Gregorio, sollevato, lasciò la carica più prestigiosa della città.

Gregorio, monaco

Insieme alle speranze terrene, Gregorio lasciò per sempre la porpora del patriziato e indossò le insegne di una nobiltà più alta: l’abito monacale. Ma invece di abbandonare la turbolenta Roma e partire per qualche lontano chiostro, trasformò il palazzo senatoriale del Monte Celio in un monastero benedettino, dedicato a Sant’Andrea.

Affidando la guida della casa a un esperto abate di nome Valenzio, iniziò la sua vita religiosa come umile suddito. Furono gli anni più felici della sua esistenza.

In quel periodo, Gregorio poté soddisfare il suo desiderio di isolamento e gli furono concesse abbondanti grazie mistiche di contemplazione. Con indicibile nostalgia, decenni dopo scrisse: «Quando vivevo nel monastero, potevo avere la mente fissa sulla preghiera in modo quasi continuo».

La luce sulla lampada

Dopo quattro anni di pace monastica, per ordine di papa Benedetto I, fu ordinato diacono regionale, ovvero incaricato dell’amministrazione di una delle regioni ecclesiastiche che a quel tempo dividevano la città di Roma.

Poco dopo, il nuovo Papa, Pelagio II, che riconosceva in Gregorio una lunga esperienza in questioni secolari e una comprovata virtù, lo inviò come apocrisario (nunzio) nella capitale dell’Impero d’Oriente, Costantinopoli.

Sei anni di intenso lavoro alla corte imperiale fornirono a Gregorio un utile contatto con la cultura e la grandezza bizantine, ma anche con la politica tortuosa e ambigua dei suoi sovrani. Le tendenze eterodosse del monofisismo e del nestorianesimo, che ancora covavano lì, furono combattute con coraggio dall’apocrisiario, che sapeva unire alle argomentazioni teologiche una sottile abilità diplomatica.

Sempre accompagnato da alcuni monaci di Sant’Andrea del Monte Celio, Gregorio mantenne nel bellissimo palazzo sul Bosforo, dove risiedevano gli apocrisiari del Papa, la vita sacrale di un religioso, figlio di San Benedetto. Nonostante le molteplici occupazioni, tutti lì pregavano, cantavano e studiavano le Scritture, nel pieno rispetto della disciplina monastica.

Intorno all’anno 585, Gregorio poté tornare a Roma. Il suo desiderio più grande era quello di ritirarsi definitivamente dal mondo e chiudersi nel suo amato monastero di Sant’Andrea. Tuttavia, i doveri dell’apostolato e la voce dell’obbedienza lo chiamarono ancora una volta verso altre strade.

Un’antica tradizione narra che un giorno, camminando per le strade della città, incontrò un gruppo di giovani schiavi anglosassoni, provenienti dalla lontana Britannia. Addolorato nel vedere persone così ricche di qualità, sommerse nelle tenebre del paganesimo, esclamò: «Non sono anglosassoni, ma angeli!». Un incontro provvidenziale che lo spinse a fare tutto il possibile per portare la luce del Vangelo a quel popolo e, più tardi, a promuovere la conversione di tutti i nuovi e temuti abitanti dell’Europa: i barbari.

Chiese il permesso al Papa di recarsi nel paese degli Angli, con l’obiettivo di portarli nel seno della Chiesa. Ma, ascoltando le suppliche del popolo romano, che non voleva vedersi privato di un uomo la cui santità era già nota, Pelagio II lo trattenne nella Città Eterna e, inoltre, lo chiamò a sé per servirsi di lui come esperto consigliere.

La più alta delle croci

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Dopo la morte di Pelagio II, Gregorio fu scelto all’unanimità per occupare il trono di San Pietro. Considerandosi però indegno e spaventato dall’incommensurabile responsabilità, fuggì da Roma e si nascose tra le montagne e le foreste vicine. Lì fu trovato dal popolo e allora si sottomise umilmente davanti agli inequivocabili segni della volontà divina. Fu solennemente consacrato nella Basilica di San Pietro il 3 settembre 590. Tuttavia, avendo sempre davanti a sé la propria insufficienza e indegnità, manifestava sinceramente il suo sgomento: «Mi sento così schiacciato dal dolore che riesco a malapena a parlare.

Tutto ciò che contemplo mi causa tristezza, e ciò che per gli altri è motivo di consolazione, a me sembra penoso».

Ma se l’umiltà lo faceva tremare, la fede nell’invincibilità della Cattedra di Pietro gli infondeva una forza soprannaturale: «Sono disposto a morire piuttosto che essere causa di rovina per la Chiesa di Pietro».

Il punto di vista profetico

Gregorio I saliva al supremo pontificato in una città devastata, simbolo di una civiltà in agonia, e in una Chiesa sconvolta da invasioni, scismi e cedimenti.

Tuttavia, l’ispirata lungimiranza, che lo avrebbe caratterizzato fino alla fine, si manifestò fin dal primo momento del suo governo. Di fronte a una società devastata da crisi apparentemente irrisolvibili, egli presentò l’ideale della vita cristiana in tutta la sua radicale integrità.

L’immenso vuoto lasciato dalla scomparsa dello ius civitatis romano poteva essere colmato solo dal donum caritatis cristiano. L’obiettivo principale del Papa-monaco sarebbe stato quindi quello di elevare continuamente gli spiriti alla considerazione delle realtà soprannaturali, per poi vivere gli eventi temporali in una prospettiva eterna.

Procedendo in questo modo, San Gregorio chiudeva per sempre l’ultima porta che univa l’Europa al mondo antico, nato dal paganesimo, e piantava il seme di una nuova civiltà che sarebbe cresciuta alla luce del Vangelo, irrigata dal preziosissimo Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo.

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Pastore delle anime

Durante i primi anni del suo pontificato, la penisola italiana attraversava una delle fasi più difficili del conflitto longobardo. Abbandonata quasi completamente dai bizantini, l’antica urbe fu assediata due volte dai feroci Longobardi. Ma in entrambi i casi, grazie alla forza e all’abilità del nuovo Papa, l’assedio fu revocato e i Longobardi si ritirarono.

Impegnato non nella distruzione, ma nella conversione degli invasori, San Gregorio firmò una tregua con loro e cercò con ogni mezzo di attirarli alla vera fede. Dopo non pochi tentativi, fu possibile – grazie al fervore e all’influenza della principessa Teodolinda, figlia del re cattolico di Baviera e moglie del capo dei Longobardi – battezzare il figlio della coppia e preparare così la futura conversione di tutto il popolo.

La sete di anime del Sommo Pontefice fece rifiorire per la Chiesa tutta l’Europa occidentale.

In Spagna, sostenne efficacemente San Leandro nella difficile evangelizzazione dei Visigoti ariani. Alla fine, il monarca di quella nazione abbracciò la vera religione. La Gallia meritò un’attenzione speciale da parte del santo Papa. Egli instaurò buoni rapporti con i sovrani franchi, rinnovò il clero decadente e simoniaco, ordinò la convocazione di sinodi e cercò con energia di porre fine alle crudeli pratiche pagane che ancora persistevano.

San Gregorio poté manifestare tutto il suo ardore missionario nella conversione della Gran Bretagna. Un tempo provincia dell’Impero, quest’isola era stata evangelizzata già agli albori del Cristianesimo. Tuttavia, invasa e dominata dalle tribù barbariche degli Angli e dei Sassoni, la luce della fede si era quasi spenta.

Il Pontefice non risparmiò alcuno sforzo per convertire questo popolo: fondò una casa di formazione a Roma per i giovani anglosassoni, riuscì a far sposare uno dei loro re con una principessa cattolica di Francia e, soprattutto, inviò lì un gran numero di missionari.

Tra questi si distinse Agostino, che in seguito sarebbe diventato arcivescovo di Canterbury e che, secondo quanto narrano le cronache, battezzò più di diecimila neofiti nel giorno di Pentecoste del 597.

Nonostante varie malattie che gli causavano terribili sofferenze, rimase saldo e vigile fino alla fine. Nell’anno 604, Gregorio, nella pace dei giusti, consegnò la sua anima al Pastore dei pastori.

Tutto in quest’uomo provvidenziale era grande, grazie alla sua umile docilità davanti ai disegni dello Spirito Divino che governa la Sposa di Cristo. La vita di questo ammirevole Papa costituisce una pietra miliare nella storia della Chiesa. Pubblicò la “Regola Pastorale”, un vero e proprio manuale di santità per i pastori del gregge del Signore; riformò la Liturgia, creando lo stile di canto che oggi porta il suo nome; e fece del suo Pontificato il punto di partenza di una nuova civiltà, interamente cristiana.

Tuttavia, il suo unico e ardente desiderio era quello di servire incondizionatamente, come semplice schiavo, Gesù Cristo, il Re Eterno. Per questo, mentre dall’alto della Cattedra di Pietro governava i destini del mondo, non volle ricevere altro titolo se non quello di servo dei servi di Dio. E la Santa Chiesa, con materna gratitudine, unì la grandezza al nome dello schiavo: per sempre egli sarà chiamato San Gregorio, Magno.

Testo tratto, con adattamenti, dalla rivista Arautos do Evangelho n. 81, settembre 2008. Di P. Pedro Rafael Morazzani Arráiz, EP

 

 

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