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Udienza generale: “L’umiltà di Cristo risorto”

Durante l’Udienza Generale, continuando la sua catechesi sul Mistero Pasquale, Papa Leone XIV ha fatto alcune riflessioni sull’umiltà di Cristo nella Resurrezione.

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Foto: Vatican News/ Vatican Media

Redazione (08/10/2025 16:38, Gaudium Press) Leone XIV ha continuato il ciclo di catechesi su “Gesù Cristo, nostra speranza” e sulla Pasqua di Gesù. Prendendo spunto dall’episodio dei discepoli di Emmaus, oggi, mercoledì 8 ottobre, ha incentrato la sua riflessione su «un aspetto sorprendente della Resurrezione di Cristo: la sua umiltà». Il Signore risorto «non fa nulla di spettacolare per imporsi alla fede dei suoi discepoli». Senza «effetti speciali», «segni di potere» o «prove schiaccianti», ha osservato il Santo Padre. No, Cristo si avvicina ai suoi compagni «con discrezione, come un semplice passante, come un uomo affamato che chiede di condividere un po’ di pane». Inoltre, sia Maria Maddalena, sia i discepoli di Emmaus, sia Pietro, lo scambiano rispettivamente per «un giardiniere», «uno straniero» o «un semplice passante», osserva il Papa.

Messaggio prezioso

«La Resurrezione non è un colpo di scena teatrale», ma «una trasformazione silenziosa che riempie di senso ogni gesto umano». Gesù preferisce «il linguaggio della vicinanza, della normalità, della tavola condivisa». Sedendosi a tavola e mangiando, mostra che «il nostro corpo, la nostra storia, le nostre relazioni non sono involucri da gettare via. Sono destinati alla pienezza della vita. Risorgere non significa diventare uno spirito evanescente, ma entrare in una comunione più profonda con Dio e con i nostri fratelli, in un’umanità trasfigurata dall’amore».

Così, «nella Pasqua di Cristo, tutto può diventare grazia», «anche le cose più semplici», spiega il Sommo Pontefice, per il quale «la Resurrezione non sottrae la vita al tempo e allo sforzo», ma «ne trasforma il senso e il “sapore”. Ogni gesto compiuto con gratitudine e in comunione anticipa il Regno di Dio».

Ma attenzione, avverte Leone XIV, a non inciampare in un «ostacolo»: «la pretesa che la gioia debba essere senza ferite». Non bisogna cadere nell’errore commesso dai discepoli di Emmaus, tristi «perché aspettavano un altro finale, un Messia che non conoscesse la croce. […] Il dolore non è la negazione della promessa, ma la via attraverso la quale Dio ha manifestato la misura del suo amore», spiega il Papa.

Se apriamo bene gli occhi, come hanno finito per fare i discepoli, ci rendiamo conto anche noi che il cuore «arde anche se non lo sapevano».

«Sotto le ceneri del disincanto e della stanchezza, c’è sempre una brace viva, che aspetta solo di essere ravvivata», ha detto il Papa.

Nulla è definitivo per chi sa accogliere Cristo

Per questo «non c’è storia così segnata dalla delusione o dal peccato che non possa essere visitata dalla speranza». «Nessuna caduta è definitiva, nessuna notte è eterna, nessuna ferita è destinata a rimanere aperta per sempre». Insomma, «nessuna distanza può estinguere la forza infallibile dell’amore di Dio», ha sintetizzato Leone XIV.

«A volte pensiamo che il Signore venga a trovarci solo nei momenti di raccoglimento o di fervore spirituale, quando ci sentiamo all’altezza, quando la nostra vita sembra ordinata e luminosa. Al contrario, il Risorto si avvicina proprio nei luoghi più oscuri: nei nostri fallimenti, nelle relazioni logorate, nelle fatiche quotidiane che gravano sulle nostre spalle».

In realtà, Gesù è accanto a ciascuno di noi anche nella sofferenza e nella solitudine. «Ci chiede di lasciare che il nostro cuore si riscaldi», spiega. Come ha fatto con i discepoli di Emmaus, Cristo «attende il momento in cui i nostri occhi si aprono per vedere il suo volto amico, capace di trasformare la delusione in attesa fiduciosa, la tristezza in gratitudine, la rassegnazione in speranza». Gesù vuole essere «il nostro compagno di viaggio» e  «accendere in noi la certezza che la sua vita è più forte di qualsiasi morte».

«Chiediamo quindi la grazia di riconoscere la sua presenza umile e discreta, di non pretendere una vita senza prove, di scoprire che ogni dolore, se abitato dall’amore, può diventare luogo di comunione».

 

 

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